Gli ebrei USA e l’aborto
di Annalisa Di Nola
La sentenza della Corte Suprema statunitense del 24 giugno che, con sei voti contro tre, ha annullato la precedente del 1973 nota come “Roe contro Wade”, che garantiva il diritto all’aborto nel paese, ha certamente sconvolto l’opinione pubblica di molte nazioni democratiche. Una buona parte della società civile e politica degli Stati Uniti è rimasta interdetta e molti cittadini indignati si sono riversati sulle strade per protesta. Altri, certamente, all’annuncio hanno esultato. Ormai la sentenza è comunque cosa fatta e i diritti, che le donne avevano acquisito e dato per scontati da cinquant’anni a questa parte, diritti al controllo del proprio corpo, della propria capacità riproduttiva e della propria autonomia decisionale, sono stati seriamente compromessi. La sentenza rende molto più agevole per i singoli stati proibire l’aborto. Già 22 degli stati della repubblica federale dispongono di una legislazione che ostacola pesantemente il diritto ad ottenere un aborto, che ne impedisce l’attuazione dopo un certo numero di settimane di gestazione, che si predispone a proibirlo completamente una volta annullata la sentenza del ’73. Diversi altri stati, in genere a maggioranza parlamentare Repubblicana, si sono dichiarati e sono pronti a seguirne l’esempio, legiferando ad hoc sulla scia dell’attesa e finalmente celebrata decisione. Per quanto possa sembrare incredibile, si profila anche la possibilità, tutt’altro che remota, di proibire alle donne incinte di varcare le soglie del proprio stato di residenza al fine di abortire.
Un disastro annunciato?
Naturalmente, anche se non ci fosse stata la fuga di notizie che aveva fatto conoscere con oltre un mese di anticipo il testo dell’opinione scritta dal giudice Alito, che ha poi costituito gran parte del testo della sentenza definitiva, questa decisione non si presenta esattamente come un fulmine a ciel sereno. Attacchi alla sentenza Roe contro Wade si sono variamente ripresentati nel corso degli anni. Le correnti antiabortiste sono molto presenti ed attive in ambito conservatore e riemergono con veemenza ad ogni battaglia per le elezioni politiche. Inoltre, la nomina, fortemente perseguita dal presidente Trump, di ben tre membri della Corte Suprema di stampo reazionario ha favorito la fertilizzazione di quell’humus di cui questa sentenza è il triste risultato. Va notato fra l’altro che tutti i giudici che hanno sostenuto l’esito maggioritario della sentenza sono cattolici. Dei tre minoritari, due sono ebrei ed una cattolica di origine ispanica. Al momento di ebrea ne è rimasta solo una, Elena Kagan, visto che l’ottantatreenne Breyer si è ritirato a fine giugno, sostituito da Ketanji Brown Jackson, neonominata da Biden.
Orientamento generale degli ebrei americani
In misura superiore ad ogni altro gruppo religioso, gli ebrei americani sostengono il diritto all’aborto. Si sono pronunciati in tal senso sin dagli anni ’60, partecipando a questa battaglia accanto a quella per gli altri diritti civili, in linea con i valori democratici e progressisti da loro sempre sostenuti e promossi e, non appena la fuga di notizie sulla bozza del giudice Alito aveva indotto a temere il peggio, lo hanno ribadito in varie accorate dichiarazioni pubbliche, pareri legali inviati alla Corte Suprema e anche raduni e manifestazioni di protesta come quella organizzata a Washington dal Consiglio Nazionale delle donne ebree, cui sono intervenute più di 120 organizzazioni ebraiche. Ciò non stupisce più che tanto, dal momento che una larga maggioranza della popolazione ebraica statunitense, mai sotto la soglia del 70%, ha sempre votato per il partito Democratico e si è battuta per promuovere e difendere i diritti civili.
Un sondaggio del 2014 condotto dal Pew Research Center aveva segnalato come, per la maggioranza delle possibili eventualità di ricorso all’aborto, l’83% degli ebrei americani si considerasse favorevole. Fra costoro si contava perfino il 67% degli ebrei Repubblicani (una minoranza, di circa il 30% dell’elettorato ebraico). Il 38% degli ebrei ortodossi esprimeva preoccupazione per la potenziale abolizione del regime in vigore dal 1973, rispetto al 70% dei Conservative e all’81 dei Reform. Le cose si sono probabilmente modificate negli ultimi anni con una percentuale superiore, sebbene minoritaria, di ebrei avvicinatisi alle posizioni dei Repubblicani e quindi dei cristiani più conservatori anche in questo ambito.
Dopo la sentenza
A sentenza pronunciata, le dichiarazioni di condanna, indignazione e preoccupazione di gruppi ebraici americani si sono moltiplicate. In prima linea si sono mossi L’Assemblea Rabbinica, organo principale dei rabbini Conservative, l’Unione per il Giudaismo Reform, la Central Conference of American Rabbis (CCAR), ma anche la rete di collegamento fra le donne rabbine, l’American Jewish Committee, l’Anti-Defamation League, Hillel International, solo per citare le organizzazioni più note, accanto a tantissime altre formate da congregazioni locali e altre organizzazioni ombrello. Si è lamentata, in seno a queste formazioni, la sottrazione alle donne del loro essenziale diritto a decisioni riguardanti la propria salute e la negazione della loro capacità di esercitare valutazioni etiche senza interferenze governative. Si è posta in evidenza la matrice razzista e suprematista di una legislazione atta a colpire in maniera preponderante le fasce più povere della popolazione, le minoranze etniche, gli immigrati, i disabili, gli abitanti di zone rurali, isolate, o mal servite. Si è riconfermata la volontà di esercitare pressioni sul Congresso e sulle componenti parlamentari dei singoli stati affinché venga assicurata la dignità delle persone di ogni sesso e genere, si impedisca la violazione di diritti fondamentali ed anche si garantisca la libertà religiosa degli stessi ebrei le cui tradizioni e convinzioni non solo consentono, ma in certi casi richiedono il ricorso all’aborto. Ultimamente, a quasi un mese dalla decisione della Corte Suprema, ha espresso il suo parere negativo sulla nuova sentenza anche la Jewish Federation of North America.
L’Unione delle Congregazioni ebraiche ortodosse d’America, pur non considerando l’aborto come oggetto di un diritto di scelta, ma piuttosto nel quadro di una responsabilità nei confronti della vita umana, e pur non intendendo sostenere un accesso incondizionato a pratiche abortive, ha tuttavia dichiarato che l’ebraismo dà preferenza alla vita della madre piuttosto che a quella del feto e che quindi l’aborto va autorizzato in situazioni che mettano a repentaglio la vita fisica o mentale della partoriente. Pertanto, secondo l’Unione ortodossa, in osservanza della Halakhah, l’aborto deve essere accessibile a tutte le donne, indipendentemente dalla loro condizione economica, mentre una legislazione federale o statale (quale quella favorita dalla Corte Suprema) che metta al bando l’aborto senza riguardo per la salute della madre, impedisce agli ebrei di vivere in armonia con la responsabilità che ritengono doverosa e fondamentale nei confronti della salvaguardia della vita umana.
Soltanto Agudath Israel, l’organizzazione che raccoglie le congregazioni ortodosse haredi, ha plaudito alla decisione della Corte Suprema, pur obiettando di principio a divieti assoluti.
I nodi della divergenza
In linea di massima, potremmo sostenere che, mentre da molti americani conservatori la lotta
contro l’aborto viene considerata una lotta a favore della libertà religiosa, per gli ebrei è proprio il contrario: impedire l’accesso all’aborto e, in generale, alla salute mentale e riproduttiva della donna, equivale a negare la facoltà di esercitare liberamente le proprie convinzioni religiose.
Senza entrare nel merito di una discussione più approfondita sulla posizione ebraica concernente l’aborto, cosa che ben più autorevolmente possono fare e hanno infatti adempiuto i nostri rabbini italiani con larghezza di dettagli, mi limiterò a ricordare che il punto di vista dei leader ebrei americani ha sottolineato come per l’ebraismo la vita abbia inizio con la nascita, non con il concepimento e che pertanto – come si diceva – la protezione della vita della donna vada anteposta a quella del feto, sebbene vari poi la posizione di taluni responsi rabbinici in merito allo stadio di gestazione di quest’ultimo. Inoltre, rispetto alla posizione dei giudici della Corte Suprema che hanno sostenuto non esistere una menzione del diritto all’aborto nella Costituzione americana (già, parliamo del 1788, salvo emendamenti) negando che esso rientri nel novero dei diritti più generali da questa garantiti, rabbini ed esponenti di organizzazioni ebraiche hanno fatto appello al Primo Emendamento della Costituzione americana sulla libertà religiosa, che con la recente sentenza viene dunque pesantemente ristretta per gli ebrei, e per altri potenziali soggetti. Si sono inoltre appellati al Quattordicesimo, che impedisce a qualsiasi stato la privazione della libertà della persona, lo stesso emendamento che aveva finora fatto valere la causa Roe contro Wade. In particolare, la sentenza del 1973, così come altre successivamente approvate dalla Corte Suprema, riconosceva sulla base del suddetto emendamento, il diritto alla privacy, in ambito sessuale e matrimoniale così come in altre sfere della vita decisionale individuale. E questo diritto alla privacy – molti rabbini sostengono – è un valore particolarmente importante e onorato dalla tradizione ebraica, tanto nella Torah che in vari trattati talmudici; un diritto che viene ora brutalmente violato, così come il diritto all’aborto che testi ebraici e responsi rabbinici antichi o più moderni riconoscono, accettano e reputano perfino in diversi casi l’unica scelta possibile. Anche per l’ebraismo ortodosso americano un divieto generalizzato alla pratica dell’aborto, come quello cui conduce la sentenza della Corte Suprema, indica una pesante violazione della privacy oltre che della libertà religiosa, in quanto, per questa comunità, l’aborto non concerne una posizione politica, ma una questione privata da decidersi caso per caso.
Quali esiti?
Purtroppo, la forte ispirazione cristiana di questa sentenza e di quanti la accolgono con giubilo, fondata sull’idea che la vita sia presente dal momento del concepimento, è evidente, al punto che in vari stati sono già in atto, o si tenta di deliberare, leggi secondo le quali il feto va considerato come persona vivente dotata degli stessi diritti di qualcuno che sia effettivamente nato, con tutte le innumerevoli conseguenze che questo comporta. A rischio sono anche potenzialmente il diritto di accesso alla contraccezione, ai matrimoni fra persone dello stesso sesso e magari, qualcuno vocifera, all’istruzione.
La Congregation Le-Dor-va-Dor della Florida aveva impugnato, senza successo, in nome della libertà religiosa, una legge della Florida che impedisce l’aborto oltre le 15 settimane di gestazione. La causa è stata persa e la legge riconfermata il 1 luglio.
L’idea che la sentenza della Corte Suprema emessa il 24 giugno scorso sia solo l’inizio di misure sempre più restrittive della privacy, della libertà di decisione e di accesso a cure mediche e sanitarie, non è semplicemente una fantasia paranoica.
Le battaglie di organizzazioni ebraiche contro tali tendenze continueranno insieme a quelle di tanti altri movimenti di opinione. Con quali esiti non è dato sapere, ma certamente in stretto collegamento con i prossimi esiti elettorali.
luglio 2022
Foto di Gayatri Malhotra. Unsplash