di Sandro Ventura
Esponente ebraismo progressivo

Nel numero di luglio di Ha Keillah è stato pubblicato un interessante articolo di Rav David Gianfranco Di Segni dal titolo “IL diritto di contare”, in cui rispondeva a due precedenti articoli (Ha Keillah di maggio) di Tali Dello Strologo e di Anna Segre (con altre sette firmatarie). Le autrici si rammaricavano dell’esclusione del genere femminile nel computo del minian (Dello Strologo), e rivendicavano (Segre e le altre) il merito di avere organizzato una lettura pubblica di donne della Meghillat Ester a Torino. Rav Di Segni (a cui sono legato da un’amicizia di oltre cinquant’anni) cita alcuni Maestri che ammettevano le donne nel minian (quorum di dieci ebrei per la preghiera pubblica ebraica) di Purim ed in quello di Hanukkà, e pure sottolinea il caso in cui degli uomini restano esclusi dal computo del minian. Da ciò fa derivare la constatazione che, nell’ebraismo più tradizionale, non si fa più di tanto questione di genere nel computo del minian.

L’approccio di Rav Di Segni è rigorosamente ortodosso, sia nel metodo analitico sia nel merito della questione del computo del minian. Questo approccio, da oltre 25 anni, non lo condivido più.  È evidente che nell’ebraismo ortodosso le donne sono discriminate ed escluse: a parte rare eccezioni, non contano nel minian, non possono cantare al tempio, non possono condurre una tefillà, sono relegate nei matronei e non possono essere né rabbine né hazaniot (femminile plurale di cantore). Fortunatamente quello ortodosso non è l’unica forma di ebraismo. Sia le kehillot (comunità) conservative sia quelle progressive includono in modo paritario le donne e le persone lgbt+ nelle celebrazioni religiose.

Per mia esperienza posso dire che la tefillà in comune fra uomini e donne presenta notevoli vantaggi: oltre a computare le donne nel minian, permette la condivisione familiare, aggiunge kawwanah (concentrazione, attenzione, significato), dà spazio alle energie femminili e a una maggiore affettività. Quando la tefillà è condotta da una rabbina o da una hazanit, di solito è più coinvolgente e “tenera”: riduce la distanza tra celebrante e pubblico coinvolgendo maggiormente i presenti nel culto. Le tefillot progressive tendono a essere più sintetiche e dinamiche, e concentrano l’attenzione sulle cose più importanti da dire, evitando ripetizioni eccessive. L’uso della lingua corrente (e della traslitterazione), inoltre, permette di comprendere, meglio, il significato ed il senso delle formule del culto, anche in considerazione del fatto che una parte dei presenti conosce l’ebraico poco o per niente. Il clima che si crea nelle tefillot delle sinagoghe progressive è molto diverso da quello delle sinagoghe ortodosse. È importante quindi che ci sia una possibilità di scelta, così che ogni ebreo/a possa riferirsi all’ambiente che gli è  più congeniale, ortodosso, conservativo, progressivo o umanistico. In molte comunità italiane oggi questo è possibile: si possono frequentare gruppi progressivi a Milano, Roma, Bologna, Firenze, Bergamo ed in futuro anche in altre città.

L’impegno per l’ebraismo progressivo mi ha permesso di riavvicinarmi alle tradizioni religiose ed alle tefillot che in precedenza disertavo, avendo preferito per molti anni un approccio laico, culturale e secolarizzato che mi portava a rimuovere o comunque trascurare la dimensione religiosa dell’essere ebreo. Mi ha dato l’opportunità di dialogare con molti rabbini e rabbine che mi hanno trasmesso una diversa tradizione, più aperta, flessibile e attenta alle esigenze della comunità. Bisogna prendere atto del fatto che esiste una halachà progressiva di oltre duecento anni di età, che cerca di integrare la tradizione religiosa con le esigenze individuali e le conquiste della modernità. Ogni persona viene responsabilizzata rispetto alla sua ebraicità, e soprattutto lasciata libera di scegliere se e come aderire alla tradizione.

“Da una legge della Torah la Mishnah ne ha tratte dodici e la Ghemarah (commentari talmudici) cinque dozzine; mentre nei commentari successivi ci sono già tante leggi quanti i granelli di sabbia. Ditemi allora, come dobbiamo vivere? …” In questa frase interrogativa (“I Libri di Jacub o Il Grande Viaggio” di Olga Tokarczuk, premio Nobel 2018, Bompiani 2023, pag. 1001) ritrovo gran parte dei miei vissuti nei confronti della halachà ortodossa, a cui non posso adeguarmi, come la stragrande maggioranza degli iscritti alle nostre comunità, che si dichiarano ortodosse, ma nella realtà poi non lo sono.

Sono convinto del fatto che l’essenza dell’ebraismo consista soprattutto nella haggadà, nella trasmissione dei nostri valori alle future generazioni attraverso i racconti biblici, talmudici e letterari, compresa la grande narrativa israeliana contemporanea, attraverso lo studio dell’ebraico, della storia del nostro popolo e delle nostre famiglie, e anche attraverso le celebrazioni religiose, che pure debbono rinnovarsi ed assumere delle forme più consone al mondo di oggi. È questa la millenaria ed utile dialettica fra Beth Hillel e Beth Shammai, fra Eliezer ben Horkanus e gli altri Maestri, e che pure si può trovare nello studio scientifico dei testi biblici, iniziato da Nachmanide e da Baruch Spinoza e proseguito da innumerevoli altri esegeti che si sono avvalsi del metodo storico/critico nello studio del Talmud e degli autori successivi.

Sono convinto che l’esclusione delle donne dalla partecipazione attiva nella tefillà (preghiera collettiva) sia un atto di estrema ingiustizia, un anacronismo dannoso per il nostro popolo, che viene così a perdere una grande opportunità sprecando una risorsa preziosa e vitale.

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