IL CAOS NEL SEGNO DELLA DEMOCRAZIA
di Paola Abbina
È un periodo molto delicato per Israele e per la tenuta della sua democrazia, anche se il periodo in questione va ben oltre gli ultimi mesi, considerato che negli ultimi tre – quattro anni circa siamo andati alle urne ben cinque volte.
Ma ora sembra di essere arrivati a un punto di non ritorno.
Migliaia di manifestanti sono scesi nelle strade, e stanno continuando a farlo con cadenza settimanale e con partecipazione crescente, per protestare contro i piani del nuovo governo israeliano di rinnovare il sistema giudiziario mettendo a serio rischio la democrazia del Paese.
Infatti, il nuovo governo israeliano, guidato da Benjamin Netanyahu e dai partiti di ultradestra e ultra religiosi, ha lanciato proposte concrete per conferire al parlamento il potere di controllare la nomina dei giudici e di vanificare le decisioni della Corte Suprema con un voto a maggioranza semplice. In sostanza tre i punti proposti dal Ministro della Giustizia Yariv Levin: il quasi azzeramento della possibilità del tribunale supremo di bocciare le leggi approvate dalla Knesset perché in contrasto con le Leggi Fondamentali dello Stato, la modifica della composizione della commissione incaricata di nominare i giudici di tutti i livelli e la proibizione di utilizzare il criterio di ragionevolezza per annullare atti amministrativi a livello locale e nazionale.
La proposta è stata condannata, tra gli altri, dal presidente della Corte Suprema Esther Hayut come un “colpo mortale” all’identità democratica del Paese, mentre il governo nel frattempo sostiene che ripristinerebbe l’equilibrio di potere tra i tre rami del potere statale . Il tutto in concomitanza con un Primo Ministro che sta attualmente combattendo tre diversi casi legali che lo coinvolgono direttamente con accuse di corruzione, abuso d’ufficio e frode. E lui ovviamente nega ogni illecito.
Ma non è ancora tutto. In contemporanea alle manifestazioni che si sono tenute in tutte le più grandi città di Israele ce ne è stata un’altra che sebbene antigovernativa, si stava svolgendo a Gerusalemme di fronte alla casa del Presidente Herzog accusato di essere troppo debole di fronte alla gravità della situazione. La sua sfida è duplice: convincere le parti a smorzare la retorica incendiaria, a scendere a compromessi sulle questioni per accettare di riformare il sistema giudiziario, ma senza stravolgerlo così radicalmente come viene proposto.
Il problema di Herzog è che al di fuori dell’autorità morale del suo ufficio e dei poteri persuasivi della sua personalità, non ha alcuna reale influenza su nessuna delle due parti. Inoltre, dovrà procedere con cautela perché prendere posizione su una questione così controversa potrebbe costargli l’unica grande risorsa che ha: la fiducia del pubblico nell’istituzione della presidenza. Infatti, l’ultimo sondaggio pubblicato a Gennaio 2023 dall’Istituto Israeliano per la Democrazia sulla fiducia del pubblico nelle istituzioni statali ha riposto nel Presidente il 60% della fiducia del pubblico, dietro solo all’esercito e con la seconda posizione più alta delle otto istituzioni statali dell’elenco. Se Herzog dovesse prendere una posizione politica definita, quella fiducia ne risentirebbe senza dubbio. E se c’è chi sostiene che il presidente debba essere super partes e che il suo compito sia unicamente quello di rappresentare una figura unificante, ci sono stati comunque precedenti in passato in cui i presidenti sono stati pesantemente coinvolti in argomenti politici controversi e scottanti: per esempio nel 1982, l’allora presidente Yitzhak Navon minacciò di dimettersi se non fosse stata istituita una commissione d’inchiesta governativa per indagare sul massacro di Sabra e Shatila. E alla fine fu istituita una commissione d’inchiesta; o quando Israele e Siria tennero colloqui di pace nell’inverno 1999-2000 sotto il primo ministro Ehud Barak: l’allora presidente Ezer Weizman andò ben oltre i confini dell’imparzialità minacciando di dimettersi se Israele avesse votato contro la restituzione delle alture del Golan in un referendum, ma quella questione non è mai arrivata a un referendum. “È molto difficile essere il Presidente dell’intera nazione”, ha detto Weizman all’epoca, “a meno che non si sia disposti ad essere sordi, muti e preferibilmente ciechi”. E Herzog ha dimostrato di non essere né cieco né o sordo a ciò che stava accadendo, né tantomeno sarebbe rimasto muto. Ma la strada che Herzog sta intraprendendo con molta prudenza su questa vicenda dimostra che è ancora presto per arrendersi e che sta ancora cercando di essere il presidente di tutti. “Ora sono concentrato su due ruoli critici che credo di ricoprire come presidente in questo momento: evitare una storica crisi costituzionale e fermare la continua spaccatura all’interno della nostra nazione”, ha affermato in una nota.
Speriamo che la ragione abbia la meglio perchè le guide spirituali del Paese, che dovrebbero ricordare a Israele di porsi come esempio e “luce delle nazioni”, sono invece spesso sostenitori o perfino promotori di un estremismo oscurantista.
Il tutto perfettamente condito con la classica sfacciataggine israeliana che consente all’on. Aryeh Deri di dire con la massima semplicità: “il verdetto non mi interessa. Sono stato eletto e farò il ministro”. Ricordiamolo, a Deri è stato vietato di ricoprire il ruolo di ministro perché condannato per reati fiscali. A “sporcarsi le mani” è stata ancora una volta la Corte Suprema, Netanyahu non aveva eccepito nulla. Ma dopo la sentenza della Corte, Netanyahu si è trovato costretto a rimuoverlo senza quasi battere ciglio, evidentemente temendo che anche nei suoi confronti si possa arrivare all’inibizione per il suo stesso ruolo di Primo Ministro.
Nella sostanza, pensa Deri, pensano i suoi, pensa il governo tutto e pensa una gran parte della popolazione, non c’è un problema sostanziale, è solo forma. “Chi è incriminato non deve correre per la Knesset? E invece i casi non mancano!” E ora che succede? Con le parole del Procuratore Generale Gali Baharav-Miara si può dire che il Primo Ministro assume automaticamente i ruoli dei ministri che si dimettono o vengono rimossi. “Tuttavia, Netanyahu non può servire come ministro a causa del suo procedimento penale in corso, e quindi deve nominare qualcun altro ai ruoli di ministro della salute e degli interni di Deri”. Infatti, Netanyahu è sotto processo in diversi casi di corruzione, e secondo un accordo del precedente Procuratore Generale, “non può usare i suoi poteri di primo ministro per nominare le forze dell’ordine e influenzare intenzionalmente i testimoni nei suoi casi”. Ma se Netanyahu, almeno fino ad ora, continua a essere Primo Ministro, perché altri come lui non dovrebbero essere ministri? E qui si chiude il cerchio. A goderne, per ora, i sostituti provvisori, i quali hanno un incarico limitato a tre mesi. Forse il tempo che servirà al governo per sfornare una legge ad hoc che consenta a Deri di tornare a fare il ministro? È notizia dell’ultim’ora infatti che l’intera coalizione di governo, senza eccezione alcuna, abbia presentato la proposta di modifica della legge fondamentale dello stato (una sorta di costituzione per un Paese che non ha Costituzione) sulla nomina a ministro. La modifica, la seconda ad hoc per avere Deri come ministro (!), prevede che non vi debba essere nessun esame da parte di nessuna Corte in questioni relative alla nomina di un ministro, ad eccezione delle clausole di ineleggibilità per non-cittadinanza e per congedo con disonore. E la condanna di Deri non comportava “disonore”. Intanto il paese si mobilita: le università e il mondo Hi tech stanno scioperando già da alcuni giorni, e giganti come PayPal, Toyota e Microsoft stanno ritirando i fondi da Israele. Last but not least, una lettera di economisti ed esperti del settore mette in guardia il Primo Ministro dalle conseguenze catastrofiche che questa riforma potrebbe portare all’economia del Paese. Ma lui, ostinatamente, nega….
Haifa, 31.1.2023