IL MOVIMENTO A SOSTEGNO DEI PALESTINESI: RIFLESSIONI
di Manfredo Montagnana
L’occupazione dello stabilimento Leonardo di Torino il 13 novembre era proposta come dimostrazione contro la guerra e quindi contro la produzione di materiale bellico da parte di qualsiasi industria italiana a favore di Israele. Chi come Crosetto chiama “eversivi” i manifestanti deve tener presente il fatto (ricordato dalla Fiom Cgil) che la “nostra legislazione vigente vieta espressamente la vendita di armi a Paesi coinvolti in scenari di guerra” e dichiarare eversiva anche la Leonardo.
In qualche misura si è trattato di una possibile presa di coscienza del fatto che il problema non è tanto la disputa su chi è padrona del territorio tra il fiume e il mare ma il ruolo trainante dell’industria bellica nella società capitalistica.
La scelta di assumere come nemico l’industria bellica invece di Israele suggerisce una riflessione sul fenomeno “Pro Pal” assai diversa da quelle più ricorrenti: sarebbe una forma di antisemitismo (la definizione di questo concetto è peraltro continuamente messa in discussione)? o sarebbe invece conseguenza della presenza di militanti di Hamas che sanno bene cosa intendere per antisemitismo? oppure ancora i Pro Pal chiederebbero la fine delle uccisioni di decine di migliaia di palestinesi tenuti in condizioni di vita assai precarie, in particolare bambini e giovani? In ogni caso è naturale rispondere a chi propugna simili motivazioni con la domanda: ma perché sempre solo Israele? e non l’Iran per la condizione disumana delle donne in quel paese, come negli altri paesi a maggioranza musulmana? o contro Hamas e Hezbollah che sono colpevoli insieme ad Israele, visto che usano residenze civili, scuole e ospedali come centri dei loro attacchi?
La prolungata protesta di numerosi studenti delle nostre università merita una risposta più generale e più attenta, partendo dalla constatazione che molti di loro aspirano ad un mondo diverso da quello in cui sono nati. Spetterebbe forse ad uno sociologo o ad uno studioso dell’età evolutiva procedere su questa strada, ma azzardo il mio pensiero.
Questi giovani, sentono di doversi ribellare contro una società che è profondamente ingiusta e che opera scelte decisive per il futuro dell’umanità secondo criteri che sfuggono a qualsiasi verifica razionale.
Purtroppo, l’attuale stato della politica, non solo nel nostro paese, risente della scomparsa dei partiti che in passato erano portatori di idee e di strumenti in grado di offrire progetti di trasformazione della società. In questo modo si nasconde un fatto fondamentale: nessuna vera trasformazione della società capitalistica è possibile finché questa è interamente basata sulla crescita permanente del profitto.
Una proposta che sembra realistica procede secondo il precedente ragionamento individuando in modo chiaro ma preciso il problema che si vuole affrontare, cercando e studiando la documentazione indispensabile per avanzare proposte credibili.
Ammesso che il tema resti la situazione in Medio Oriente, vengono in mente alcune domande da cui partire per avviare una discussione costruttiva:
- Cosa diceva esattamente la Risoluzione 181 dell’ONU del 29 novembre 1947?
- Quali sono le condizioni delle donne in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza?
- In che modo è garantita la democrazia in questi due territori?
- In quali condizioni vivono i “non ebrei” nei territori occupati da Israele? E nel resto del paese?
- Quale è la situazione politica e sociale in Israele, specialmente dopo il 7 ottobre?
Ferma restando la convinzione che i grandi problemi dell’umanità non si possono risolvere all’interno di una società capitalistica, le risposte a queste e ad altre possibili domande, potranno diventare la base per un confronto fra quanti sono interessati veramente alla soluzione di una guerra che si protrae da ormai quasi un secolo.