di Marino Freschi
L’Ebreo Errante è uno dei miti più intriganti della storia culturale occidentale, che sorge insieme alla figura centrale di Gesù. Nella Gerusalemme del tempo – come racconta Goethe nella sua autobiografia – c’era un ciabattino, Ahasverus (in italiano Asvero) che era entrato in confidenza con Gesù, tentando di dissuaderlo dal frequentare quella masnada di 12 sfaccendati, che avrebbero voluto eleggerlo re d’Israele.
Salendo sul Calvario Gesù, quando passa davanti alla bottega del ciabattino, cade per il peso della croce, che viene sollevata dal Cireneo, mentre Veronica gli asciuga il volto. Sulla soglia Asvero, chiuso nella sua superbia, rimprovera Cristo che non ha seguito i suoi consigli. Gesù gli risponde: Io vado e tu mi aspetterai finché non ritornerò. Così nasce la leggenda dell’Ebreo Errante, – in tedesco: l’Ebreo Eterno – condannato a rimanere in terra fino alla fine dei tempi, senza sosta, senza pace, in continuo movimento.
Il mito si diffonde con l’invenzione della stampa: nel 1601 viene stampato il Volksbuch, il libro popolare, dell’Ebreo errante, mentre nel 1587 era stato pubblicato il più famoso Volksbuch: il Faust. Due figure che raccontano da prospettive diverse, il mito inquieto della modernità. Nel 1905 il poeta italo-tedesco Arturo Graf compone un poema drammatico Una sosta dell’ebreo errante che culmina con l’incontro fatale di Faust con Asvero. Lo scienziato tedesco è animato da una continua tensione verso il sapere e il potere, l’altro anela solo alla morte per giungere finalmente alla pace.
Se raffiguriamo altri miti vediamo delle sorprendenti e inattese contaminazioni. In uno scritto privato del 1851 Wagner annota l’analogia tra «le peregrinazioni di Odisseo e la sua aspirazione nostalgica verso patria, casa, focolare e moglie» e le vicissitudini dell’«Ebreo errante eternamente condannato a vivere, senza scopo né gioia, una vita da lungo tempo conclusa». Del resto, nel 1841 Wagner aveva composto l’Olandese Volante, altra variazione dell’eterna erranza quale maledizione dell’uomo. È il mito dell’impossibilità di trovare un luogo in cui riposare, vivo o morto. Viene in mente un’altra modalità del tema: il destino del kafkiano Cacciatore Gracco, anche lui condannato a essere sospeso tra vita e morte: Come va, cacciatore Gracco, che già da secoli viaggi con codesto vecchio battello?
Da millecinquecento anni ormai… Non chiedermi altro. Sono qui morto, morto, morto. Non so perché sono qui.
In quegli stessi anni Joyce in Stephen Hero, la prima bozza di Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, pubblicato a puntate tra il 1914 e il 1915, accenna a presenze wagneriane, sempre negate e sempre mascherate, in cui suggestioni dell’Olandese Volante si riversano nell’opera joyciana per sfociare nel 1922 nell’Ulysses.
Nel 1915 l’Ebreo Errante doveva conoscere una delle sue più famose reinterpretazioni nel Golem di Gustav Meyrink. Il Golem è lo spirito ebraico del ghetto praghese che compare ogni 33 anni per annunciare eventi tragici. In quegli anni il vecchio ghetto di Praga veniva abbattuto per il risanamento della città, con grande tristezza di Kafka, che percepiva presenze inquietanti, ma pur sempre fondanti della spiritualità ebraica:
Il vecchio malsano quartiere ebraico dentro di noi, è più reale della nuova città igienica intorno a noi. Svegli, camminiamo in un sogno: fantasmi noi stessi di tempi passati.
Il tema dell’Ebreo Eterno riappare l’anno successivo nel più noto romanzo iniziatico di Meyrink: Il volto verde (oppure La faccia verde), con il personaggio di Chidher Grün, il misterioso maestro iniziatore che indica la via esoterica al protagonista in una Amsterdam apocalittica. La suggestiva figura di Chidher Grün segnala la vivacità della tradizione ermetica nella letteratura tedesca confermata da altri romanzi, dal Wilhelm Meister di Goethe fino alla Montagna Incantata di Mann.
L’Ebreo Eterno è anche il motivo, raffigurato potentemente da Joseph Roth, soprattutto nel romanzo Giobbe e nei saggi raccolti in Ebrei Erranti in cui l’autore rivendica con trascinante passione la superiorità dell’ebraismo della diaspora, degli ebrei erranti, in polemica con il progetto dei sionisti. L’ebraismo ha la missione universale di errare tra gli uomini per testimoniare la fede nell’unità del sacro contro tutti gli dei e gli idoli e quelli di oggi sono assai più pericolosi e infidi, invisibili e quasi invincibili, quasi appunto. Solo quando questo compito sublime e immane sarà adempiuto apparirà il Messia che riscatterà l’umanità, impersonata dall’Ebreo Errante.
Nella Mission juive è racchiuso il senso ultimo dell’Eterno Ebreo Errante: l’erranza è maledizione, ma in profondità dischiude anche il mandato universale dell’ebraismo della diaspora: andare per le terre come uomini mandati da Dio. Alcune riflessioni teologiche affermano che una delle prove incontrovertibili dell’esistenza di Dio è appunto data dalla continuità del popolo d’Israele. Tutti i popoli antichi sono scomparsi, travolti dalle tragedie della storia. Solo il popolo d’Israele, con la sua tradizione, con la sua lingua sacra, con la sua ortoprassi, resta a confermare la presenza di Dio nella storia universale dell’umanità. E quella continuità è stata costantemente attaccata fino al tentativo dell’ultimo olocausto, nell’Europa del secolo scorso.
In quegli anni si aggirava il mito veramente atroce del razzismo antisemita. Nel 1940 fu girato, per ordine di Goebbels, il film-documentario Der ewige Jude (L’Ebreo Errante) per dimostrare la malvagità, la perfidia, la degenerazione morale e la bruttezza degli ebrei e l’abiezione della loro vita animalesca nei ghetti della Polonia invasa. Il documentario era obbligatorio per i membri delle SS, ma si rivelò un flop, a differenza dell’altro film antisemita Süss l’ebreo di Veit Harlan sempre del 1940, che ebbe circa 30 milioni di spettatori.
Nel secondo dopoguerra venne riscoperto e ripubblicato Roth cui, in Italia, Claudio Magris dedicò nel 1971 una monografia meravigliosa Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale, una commossa e commovente rivisitazione di quella letteratura ebraico-tedesca, sorta nelle comunità yiddish distrutte dalle persecuzioni. Il saggio si apre con esergo di Saint-Exupéry che fornisce la chiave rapida e profonda del destino dell’erranza ebraica (e non solo): L’assenza è la parola terribile di questa storiella ebrea: “Vai dunque laggiù? Come sarai lontano! – “Lontano da dove?”. L’ebreo eterno è presente ovunque e da nessuna parte: questa sua peregrinazione perpetua racchiude, anticipandolo, il senso profondo, maledetto e benedetto, del destino dell’uomo moderno, che è ormai l’inesausto pellegrino con il suo messaggio di perdizione e redenzione congeniale alla modernità, che ci fa tornare a Ulisse e a Itaca, quella rievocata da Kavafis
Sempre devi avere in mente Itaca – raggiungerla sia il pensiero costante. / Soprattutto non affrettare il viaggio, fa che duri a lungo, per anni … / E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. / Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso / già avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
Il viaggio di ritorno a Itaca, ma anche l’angosciosa ricerca del Doktor Faust – sia quello del Volksbuch del 1587, sia – e ancor maggiormente – quello di Goethe alludono alle peregrinazioni mute e dolorose, sovente insensate, dell’uomo d’oggi. Partecipano della simbologia occidentale della scoperta del pensiero pensante, vivente e cosciente. In ciò si preannuncia la redenzione di Asvero con il suo messaggio universale: l’andare è ormai nel destino umano, nell’oltre continuo dell’uomo contemporaneo alla ricerca di se stesso. Come quella di Faust, la figura atemporale, metastorica dell’Ebreo errante nella storia si trasforma nella sapiente metafora dell’umanità alla ricerca dell’estremo senso della vita.