IL VALORE DEL CONFRONTO
di Beatrice Hirsch
Siamo un popolo sempre unito contro un nemico comune, determinato a resistere generazione dopo generazione, o un popolo in eterno conflitto interno, famoso per il detto: “due ebrei, tre opinioni”?
Forse la risposta sta nel mezzo, ma questa domanda si ripropone ogni volta che ci riuniamo per discutere, confrontarci e, talvolta, scontrarci. Tra il 22 e il 24 novembre, a Milano, si è svolto il XXX Congresso dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI): un’occasione che ha permesso a settanta giovani under 35 di incontrarsi nella città che ospita la seconda Comunità ebraica più numerosa d’Italia. Eppure, nonostante questa sede prestigiosa, l’assenza di molti giovani milanesi si è fatta notare, compensata d’altra parte dalla partecipazione attiva di piccole e medie comunità come Siena, Mantova, Livorno, Venezia, Genova, Torino e Firenze.
Ogni anno partecipo con entusiasmo a questi momenti di confronto. E ogni anno mi trovo in disaccordo con molti dei partecipanti. Nonostante ciò, considero questi dialoghi fondamentali: il dibattito rimane fortunatamente, per lo più, pacifico e rispettoso, ed è proprio nel confronto che trovo la speranza per il futuro. Tuttavia, ogni anno, non posso fare a meno di domandarmi perché la maggioranza dei giovani ebrei italiani non si senta rappresentata o coinvolta dalla vita comunitaria e dall’Unione. Spesso la spiegazione ricade su un apparente distanza ideologica dalle persone che partecipano o guidano l’Unione stessa o la Comunità Ebraica locale, senza considerare che queste figure possono cambiare e cambierebbero se ci fosse una partecipazione diversa alle votazioni. Le votazioni per il Consiglio UGEI non seguono logiche di partito, come quelle dell’UCEI o di alcune Comunità, ma si basano sulla candidatura di singoli individui, mossi dalle motivazioni più disparate; quindi ogni anno il volto dell’UGEI potrebbe cambiare radicalmente a seconda dei candidati e degli accreditati al Congresso. Quest’anno le votazioni sono state particolari, a fronte di due dimissioni si sono candidati in cinque per ricoprire i posti vacanti, con un mix di volti noti e nuovi e di giovanissimi, una rarità che rappresenta però un buon auspicio per i prossimi anni di rappresentanza ebraica giovanile.
Durante il Congresso, abbiamo affrontato temi attuali e delicati: la guerra e gli ostaggi, l’antisemitismo, la presenza ebraica nelle Università e il rapporto con le istituzioni, nonchè l’inclusione degli ebrei non alachici, il rapporto con i movimenti reform e la religiosità dei giovani ebrei d’Italia. Alcune di queste discussioni sono nate dai risultati di un sondaggio recente condotto sui giovani ebrei italiani, a cura di Giulio Piperno (ex consigliere UGEI) e Carlotta Micaela Jarach (ex Presidente UGEI) pubblicato da Giuntina e ora disponibile al pubblico. Un’indagine che ha offerto spunti interessanti e, a tratti, sorprendenti.
Dialogare è resistere. È l’unica strada per costruire un futuro pacifico e per dare solidità alla nostra identità come popolo ebraico. Se smettiamo di guardarci, di riconoscerci, se alziamo muri tra noi e verso l’esterno, rischiamo di autocondannarci. In queste settimane, non è stato solo il Congresso a farmi riflettere. Ho partecipato a eventi illuminanti come il dialogo con le attiviste e co-direttrici di Combatants for Peace, l’israeliana Eszter Koranyi e la palestinese Rana Salman, ospitato alla CAM – Cultures and Mission a Torino, dove ho visto una partecipazione numerosissima. Nonché un acceso dibattito organizzato in Comunità Ebraica di Torino sui Femminismi e i Femminicidi in relazione al 7 ottobre. Questi momenti mi hanno dimostrato che un confronto aperto e rispettoso è possibile, anche tra posizioni apparentemente inconciliabili.
Eppure, viviamo in una società che sempre più spesso si rifugia nelle proprie bolle di approvazione, incapace di mettersi in discussione. Quando ci troviamo di fronte a chi porta avanti un pensiero diverso, la reazione più comune è etichettare, scegliere chi è il buono e chi il cattivo, prendere le distanze da uno o dall’altro e rinunciare in partenza al confronto. Ma questo atteggiamento è pericoloso. L’integralismo, infatti, non è solo una minaccia esterna: nasce anche da dentro le comunità stesse e le può distruggere; l’integralismo è la chiusura verso l’altro, l’incapacità di accettare il compromesso, il rifiuto di riconoscere l’alterità.
La storia ha visto più volte l’integralismo attentare alla via verso il bene comune. Come contrastarlo, allora? Con il dialogo, l’accettazione delle complessità delle persone che ci circondano e delle realtà che attraversiamo. Guardiamoci negli occhi, riconosciamoci nei bisogni e nelle paure. Opponiamoci alla divulgazione dell’odio, al culto del macabro, rinunciamo alla violenza, plachiamo la rabbia che offusca il pensiero critico. Abbiamo bisogno di ascoltare e di essere ascoltati. Riprendiamoci il nostro presente e rimettiamoci al lavoro per il futuro: per noi, per il nostro popolo e per la società intera. O almeno proviamoci. Non è facile, ma è necessario.