di Edoardo Garrone
Nella mia infanzia e prima giovinezza gli ebrei non c’erano: la vita che conducevamo nel Borgo Rossini, allora un borgo operaio, non offriva occasioni per riferirci agli ebrei come altri da noi, o per l’assenza fisica degli ebrei stessi o perché l’ebraicità di alcune persone viste in occasioni politiche legate al Partito Comunista (ad esempio Umberto Terracini e Lia Corinaldi) era del tutto trascurabile rispetto alla comunanza dell’appartenenza ideale.
Ricordo tre occasioni in cui, da ragazzo, sentii citare gli ebrei. La prima fu quando, passeggiando con mio padre in piazza Carlina, egli mi indicò quello che avrei poi saputo essere un macellaio kosher, e mi disse:”Vedi quello è il macellaio degli ebrei”. Era al pian terreno dell’edificio del ghetto così densamente popolato da presentare più piani degli edifici adiacenti di uguale altezza.
Un’altra volta, avendo strappato i pantaloni rovinosamente, mia madre (finito di sgridarmi) esclamò: “Qui ci vorrebbe l’ebrea!” e mi spiegò che le donne ebree erano abilissime a rammendare; Bice ricorda ancora il nome di una signorina Neustatter specialista in quell’arte.
La terza volta che sentii parlare degli ebrei da ragazzo, fu quando qualcuno fece cenno in mia presenza al fatto che dei cugini di Vaccheria (gruppo di case sperdute nella piana del Tanaro, non lontano da Alba) dai nomi altisonanti di Dario, Dante e Sibilla, gente di buon cuore ma praticamente analfabeti, avevano aiutato un ebreo. Pare che questi fosse un ingegner Ottolenghi di Milano, sorpreso nel cortile a raschiare furtivamente il paiolo che aveva contenuto la polenta, ed i cugini lo avevano rifocillato e nascosto per un poco.
Il primo ebreo in carne ed ossa che ho conosciuto bene è stato il mio compagno di liceo Ferruccio Nizza. Nel ’56, litigavamo perché interpretavamo in modo diverso la crisi di Suez, e il ruolo di Israele che si era unita a Francia ed Inghilterra nell’aggressione all’Egitto; ma poi mi portò in Comunità a vedere il documentario “Notte e nebbia” del regista Resnais che mi fece grande impressione. Negli stessi anni usciva il libro di Lord Russel “Il flagello della svastica”. È con queste due opere che venni a conoscenza delle atrocità naziste.
All’Università ho conosciuto Bice Fubini, che è poi divenuta mia moglie, e questo fatto mi ha dato accesso al ricco e straordinario mondo degli ebrei torinesi, nella versione di una famiglia molto laica e non praticante.
Per finire, vorrei avanzare una ipotesi che a me pare interessante a proposito della abilità delle donne ebree a rammendare. Si dice che gli ebrei romani esercitassero il mestiere di “strazzaroli”, cioè di commercianti di abiti usati. Questa, però, non era l’attività primaria. Essendo notoriamente interdetta l’attività creditizia ai gentili, molti ebrei erano dediti all’attività feneratizia (il modo per indicare il prestito a pegno, derivante dal latino fenerator). Pegno del prestito era spesso un capo di vestiario, che rimaneva al prestatore in caso di mancata restituzione della somma. Per il riuso del capo di vestiario era essenziale il rimetterlo in ordine, di qui la necessità di rammendatrici abili.
Questo spiega anche perché il commercio di tessuti e di abiti fatti fosse una delle attività predilette da molti ebrei. Ricordo che Ercole Levi, padre di cugini di mia suocera, era dedito a questa attività, ma ricordo anche che mia madre chiamava un grosso negozio di stoffe, all’angolo di via Roma e via S. Teresa, col vecchio nome di Levi, anziché col nome vero di Galtrucco.