di Stefano Levi della Torre e David Calef
“Il manifesto di Hamas, tra altre affermazioni odiose, dice: …Per ordine del Profeta, i musulmani devono combattere gli ebrei e ucciderli, ovunque si trovino…La Palestina è un bene musulmano sacro fino alla fine dei tempi, in modo che nessun uomo abbia il diritto negoziare su di essa o rinunciare a (qualsiasi parte di) essa.”
Queste parole di Hamas sono un dono del cielo ai falchi estremisti di Israele, perché infliggono disperazione all’opinione pubblica israeliana – una perdita di ogni speranza di raggiungere un compromesso…
…Hamas dovrebbe quindi essere visto come il collaboratore più efficace dell’estrema destra in Israele.” Amos Oz, New York Times, 11 Aprile 1995
Prima del 7 Ottobre, Hamas aveva una ben meritata reputazione di banda di fondamentalisti ossessionata dall’obiettivo di spazzare via Israele dalla mappa del Medio Oriente. Dopo il 7 Ottobre, il curriculum vitae di Hamas si è arricchito di un exploit raccapricciante: una mattanza perpetrata su centinaia di civili inermi nei kibbutz al confine della Striscia di Gaza. Ai miliziani di Hamas uccidere non è apparso sufficiente: hanno torturato, mutilato e stuprato assicurandosi un posto di primo piano in un eventuale catalogo della malvagità umana. È chiaro che Hamas fosse consapevole che la sua barbarie avrebbe prodotto, oltre ai morti assassinati durante il blitzkrieg, una ritorsione spropositata su Gaza. Sul conto di Hamas c’erano dunque migliaia di palestinesi vittime di Israele e queste avrebbero messo quest’ultimo sotto accusa di fronte all’opinione pubblica mondiale.
Hamas contava sul fatto che il governo di Netanyahu avrebbe reagito assecondando la propria necessità politica di rivalsa senza badare ai costi in vite umane (soprattutto palestinesi). Israele è caduto nella trappola di una rappresaglia senza limiti, seguendo il copione redatto da Hamas.
La barbarie terroristica dell’aggressione di Hamas, per sua lunga premeditazione o comunque di fatto, presenta tre aspetti: la sua efferatezza è un’esibizione clamorosa volta a sancire un’egemonia fondamentalistica sulla questione palestinese; la sua sorpresa è un’esibizione di potenza che umilia la capacità, vitale per Israele, della sua deterrenza, rivelandola fallimentare; la sua crudeltà è un ricatto a Israele, perché si senta costretta a reagire nell’immediato e cada nella tentazione di una ritorsione senza limite: strage di massa e devastazione di Gaza, con conseguenze militari, politiche e di immagine, disastrose per Israele, e corona di martirio per le sue vittime palestinesi davanti al mondo.
Il massacro compiuto da Hamas non è resistenza per il riscatto palestinese ma un atto contro l’esistenza di Israele e degli ebrei. La prima strage antisemita su grande scala del XXI secolo. Ma Hamas si è valsa di un prolungata responsabilità di Israele: quella di aver ritenuto d’esser riuscito a domare e a rendere ormai irrilevante la questione palestinese, tanto da offrire a Hamas l’occasione di tentare di impadronirsene e di farsene rappresentante egemone, per rilanciarla adesso, in sintonia con la strategia geopolitica iraniana, anche per interrompere la fase conclusiva degli accordi di Abramo tra Israele e Arabia Saudita e il processo di normalizzazione tra Israele e paesi arabi (Bahrain, Emirati Arabi Uniti e Marocco).
Non basta. Due decisioni del governo Netanyahu hanno offerto un’opportunità unica all’attacco di Hamas: la prima è quella di spaccare il paese sulla riforma autoritaria del sistema giuridico; la seconda è quella di spostare una grande parte delle forze armate a sostegno dell’aggressione dei coloni nelle terre palestinesi della Cisgiordania, lasciando sguarnita la zona esposta verso Gaza.
Bisogna riconoscere che Israele, dopo il 7 di ottobre, non aveva di fronte a sé opzioni soddisfacenti, avendo già commesso l’errore di ignorare gli avvertimenti dell’intelligence riguardo ad un probabile attacco di Hamas. Ma di tutte ha scelto la peggiore.
L’obiettivo dichiarato della risposta di Israele è stato eliminare Hamas minimizzando per quanto possibile il numero di vittime civili. Dopo sette settimane di guerra non c’è evidenza che Israele sia vicina a raggiungere il primo obiettivo mentre è chiaro che il tentativo di risparmiare le vite dei civili palestinesi sia fallito. Ad oggi (29 novembre), i bombardamenti hanno ucciso oltre 14,000 palestinesi e hanno provocato un esodo forzato dalle città di Gaza e Beit Hanoun e dai campi rifugiati situati nel Nord della Striscia, ora ridotti ad ammassi di macerie. Il 50% circa degli edifici della parte nord di Gaza è distrutto. Un milione e seicentomila palestinesi sono sfollati nel sud della Striscia dove – bene che vada se la tregua non verrà estesa – li attendono tende, aiuti umanitari e la continuazione dei bombardamenti che non risparmiano centri abitati come Khan Yunis. In breve, anche se la guerra finirà, metà della striscia è inabitabile e resterà tale ancora per molto tempo.
Nonostante le ripetute dichiarazioni dei dirigenti israeliani civili e militari, gli attacchi aerei non hanno fatto distinzioni tra miliziani di Hamas e la popolazione civile. Come avrebbero potuto? Il campo rifugiati di Jabalya, che ospitava circa 100.000 persone prima della guerra e che si estende per soli 1,6 chilometri quadrati è stato bombardato oltre 10 volte in meno di due mesi. In uno spazio così ristretto non esistono armi tanto “intelligenti” da discriminare tra un civile e un miliziano di Hamas. Risultato: oltre 200 morti, in maggioranza civili disarmati.
L’indifferenza di una parte delle autorità israeliane per le vite dei civili palestinesi non è purtroppo un’interpretazione maliziosa. Alcuni dirigenti israeliani non si sono fatti scrupolo di esprimere chiaramente come la pensano in proposito. La lista è molta lunga e qui ne proponiamo solo un campione.
Il ministro dell’agricoltura Avi Dichter ha ammesso che quello che sta succedendo a Gaza oggi è l’edizione aggiornata della Nakba, una Nakba 2023
Ram Ben-Barak del partito di opposizione Yesh Atid e Danny Danon (Likud) dalle pagine del Wall Street Journal (WSJ) hanno raccomandato alle potenze occidentali di accogliere tutti gli abitanti di Gaza, un eufemismo che significa l’espulsione dei Gazawiti da Gaza. Bezalel Smotrich, ministro delle finanze, si è associato all’appello apparso sul WSJ: “Israele non potrà più accettare l’esistenza di un’entità indipendente a Gaza”, La stessa soluzione è stata proposta da Gila Gamliel, ministro dei Servizi Segreti in un editoriale apparso sul Jerusalem Post.
Sulla scia dei suoi colleghi, l’ex ministro degli interni Ayelet Shaked ha suggerito che: “Dopo aver trasformato Khan Yunis in un campo da calcio… dobbiamo approfittare della distruzione per dire ai paesi [ospitanti] che ognuno di loro dovrebbe prendersi una quota [di palestinesi], 20.000, 50.000… ”
Giora Eiland, ex generale in pensione, ex capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale e consigliere del ministro della Difesa è stato esplicito in un editoriale pubblicato su Yedioth Ahronoth:
“Il modo per vincere la guerra più velocemente e a un costo inferiore per noi richiede il collasso del sistema della parte avversa e non la semplice uccisione di più combattenti di Hamas. La comunità internazionale ci mette in guardia dal disastro umanitario a Gaza e da gravi epidemie… Dopotutto, gravi epidemie nel sud della Striscia di Gaza avvicineranno la vittoria e ridurranno le vittime tra i soldati dell’IDF. E no, non si tratta di crudeltà fine a se stessa, poiché non sosteniamo la sofferenza dell’altra parte come fine ma come mezzo”.
L’interruzione dell’acqua potabile e il bombardamento degli ospedali trova forse qui un’anticipazione “strategica” delle proposte del generale Eiland.
Invece di dare priorità alla liberazione degli ostaggi, il governo di Israele ha messo in primo piano una campagna di annientamento di Hamas i cui obiettivi sembrano impossibili, e nel lungo periodo, controproducenti. Nel migliore dei casi gli israeliani potrebbero uccidere molti leaders che tuttavia verrebbero rimpiazzati in poco tempo. È noto che Hamas recluta nuovi seguaci tra le fila di coloro che hanno perso familiari uccisi da Tsahal. L’organizazione che nascerà sui resti di Hamas saprà sfruttare l’odio prodotto tra le migliaia di sopravissuti ai bombardamenti degli ultimi due mesi.
Si è detto che la reazione di Israele non è stata proporzionata. Il punto fondamentale è se il beneficio militare atteso è proporzionato al costo civile, politico e di immagine previsto. Dopo quasi due mesi di guerra quali sono i risultati dei bombardamenti e degli attacchi aerei? Il bilancio, in termini di beneficio militare atteso, rispetto all’obiettivo di distruggere Hamas, sembra scarso e quindi è tanto più difficile giustificarli rispetto al danno arrecato a migliaia di civili innocenti.
L’obiettivo di annientare militarmente Hamas invece che contrastarla, soprattutto attraverso una proposta politica, ci sembra illusorio e disastroso per Israele, oltre che – ovviamente – per i palestinesi. Deriva da una concezione distorta, secondo cui Hamas sarebbe una manifestazione del “male assoluto”, che esime da ogni scrupolo e ritegno riguardo a “effetti collaterali” senza limiti, un male assoluto con cui non si deve trattare. Infatti, la trattativa per liberare gli ostaggi – un’alternativa, almeno temporanea, ai bombardamenti – non è stata un’iniziativa di Israele, ma ad essa Israele è stato tardivamente costretto.
La tentazione di affidarsi esclusivamente alle armi è mossa da un’interpretazione non storica ma metafisica dell’antisemitismo di Hamas, per cui non mette conto capirne la logica politica; sarebbe più efficace capire che la strategia di Hamas si alimenta della questione palestinese, lasciata irrisolta, per inserirsi da protagonista nella lotta a oltranza contro Israele. E invece, avendo profondamente ferito e umiliato Israele, Hamas ha accresciuto il proprio prestigio, soprattutto tra i palestinesi in Cisgiordania, esasperati dalla violenza dei coloni nella West Bank. Non si può sconfiggere Hamas confondendo il gruppo terrorista con la popolazione civile di Gaza, in un comune martirio. Se il nemico usa i civili come “scudi umani”, non esiste un imperativo categorico che imponga di sterminare gli “scudi umani”. Ma così ha proceduto Israele, schiacciato dal “non c’è alternativa”, malgrado il freno di Biden.
Tra i palestinesi c’è senz’altro chi vuole la distruzione dello stato di Israele. Ma c’è anche chi vuole la creazione di uno stato palestinese accanto a quello israeliano, non al suo posto. Israele, soprattutto sotto i governi a guida Netanyahu, ha fatto di tutto per indebolire gli interlocutori che non si prefiggevano di distruggere Israele, tanto da considerare l’Autorità Palestinese – potenziale controparte per negoziati diplomatici – come un peso e “Hamas come una risorsa”. E questo è un problema gigantesco perché Hamas si può sconfiggere nel lungo termine solo politicamente. Decisivo in questo senso sarebbe il ruolo della parte palestinese insofferente nei confronti del fondamentalismo islamista di Hamas e Jihad. Questa parte, umiliata da decenni da Israele, potrebbe essere rafforzata solo se la comunità internazionale proponesse una prospettiva di liberazione, autonomia ed, eventualmente, un progetto di stato sovrano per i palestinesi, attualmente frustrato dalla continua espansione degli insediamenti in Cisgiordania.
Alla fine di novembre si è giunti a una trattativa tra il governo di Israele e Hamas per uno scambio tra ostaggi e detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane, con un’interruzione temporanea delle ostilità da entrambe le parti.
Questa trattativa sembra una necessità per Israele ma anche un limitato successo politico di Hamas che ha conquistato il ruolo di partner in una trattativa, liberando bambini e donne dalle prigioni israeliane e ottenendo l’ingresso di aiuti umanitari e la sospensione dei bombardamenti peraltro da essa stessa provocati. Ma questa trattativa, pur nel corso della guerra, il governo di Israele l’avrebbe dovuta impostare fin dall’inizio come iniziativa propria, mentre ora gli è stata imposta non solo dalla pressione delle famiglie dei massacrati e degli ostaggi del 7 ottobre, ma dagli Stati Uniti, preoccupati da un’estensione del conflitto e dal Qatar finanziatore di Hamas.
Dopo questa breve tregua e l’ammissione che esiste uno spazio di trattativa, che significato avrebbe la ripresa della guerra a oltranza? Metterebbe maggiormente in evidenza non solo la volontà di perpetuare un conflitto che minaccia Israele e ne contamina la democrazia, ma anche il conflitto di interessi di Netanyahu: più perdura la guerra più evita un resa dei conti sui suoi errori politici e sulle imputazioni per corruzione di cui deve rispondere ai tribunali d’Israele. Con la continuazione della guerra per un’inattuabile estirpazione di Hamas, Netanyahu ridurrebbe Israele a proprio ostaggio a tempo indeterminato.
29 Novembre 2023