di Giorgio Berruto
Una parte dell’opinione pubblica israeliana pensa di poter ignorare la questione palestinese, convinta di avere già vinto. Un’altra parte ritiene invece che per la stessa democrazia israeliana tale questione sia fondamentale. In mezzo, una vasta pianura in cui emergono timori per la sicurezza, freddezza nei confronti di un vicino tutto sommato poco conosciuto, disincanto a fronte della ormai pluridecennale intransigenza di una leadership palestinese impareggiabile nel non perdere occasione di perdere occasioni. La protesta contro la riforma della giustizia e contro un governo colmo fino all’orlo di messianismo, estremismo, brutale demagogia da taverna, incompetenza e fondamentalismo religioso interseca in modo parziale ma non si sovrappone alla rivendicazione dei diritti dei palestinesi. Come è stato spesso rilevato in questi mesi, la forza della protesta israeliana è la trasversalità, cioè la capacità di comprendere l’ampia maggioranza del paese che studia, produce, paga le tasse e svolge l’oneroso servizio militare. Ed è inevitabile che di questo contesto le ong che si impegnano per i diritti dei palestinesi rappresentino soltanto una frazione.
Due anni fa il giornalista Pietro Frenquellucci ha dato voce ai coloni ebrei che vivono, spesso in condizione di illegalità, nei territori strappati da Israele alla Giordania nella breve guerra difensiva dei sei giorni. Oggi, con Israeliani contro. La battaglia per i diritti umani dei palestinesi, lascia spazio ai rappresentanti delle ong israeliane che si spendono per tutelare i diritti di tutti coloro che vivono tra il Mediterraneo e il Giordano. I due volumi si completano l’un l’altro e sono dunque da leggere insieme. Il movimento per i diritti dei palestinesi in Israele si sviluppa d’altronde dalla fine degli anni settanta in parallelo con l’espansione degli insediamenti ebraici oltre la linea verde, favorita dal primo governo di destra del paese. Nel 1978, pochi mesi prima della firma degli accordi di Camp David tra Egitto e Israele, di fronte al timore che le incertezze del governo Begin possano arenare le trattative si sviluppa il primo embrione da cui scaturirà Shalom Akhshav, “pace adesso”, il primo grande movimento israeliano per la pace. E poi? Poi il movimento dei coloni si sviluppa impetuosamente fino a superare oggi il mezzo milione di ebrei residenti oltre i confini del 1967 – senza contare le centinaia di migliaia che vivono nei quartieri a sud, est e nord di Gerusalemme – in 128 insediamenti riconosciuti dallo stato di Israele (ma non dalla legge internazionale) e numerosi piccoli avamposti illegali. Non va peraltro dimenticato che gli stessi insediamenti riconosciuti come legali nascono da iniziative illegali in un secondo momento sanate dall’alto.
Spesso in passato gli insediamenti venivano giustificati in quanto utili o indispensabili alla sicurezza di Israele. Un argomento geostrategico secondo il quale gli avamposti darebbero profondità ai confini israeliani in territorio ostile, un territorio fatto di alture da cui si può dominare facilmente la pianura costiera in cui sorge l’area metropolitana di Tel Aviv, autentico cuore pulsante del moderno stato ebraico. Oggi però questo argomento viene sempre meno utilizzato dai sostenitori delle colonie a tutto vantaggio di un altro discorso tradizionale, quello storico-teologico per cui esiste un legame trimillenario tra popolo di Israele e terra di Israele, la quale è stata donata al popolo da Dio. È interessante lo slittamento dal discorso geopolitico a quello fondamentalista religioso, perché mentre la strategia di difesa dipende dagli interessi in continua evoluzione degli uomini, la volontà imperscrutabile di una divinità è atto evidentemente non revocabile. Oggi è finalmente chiaro a (quasi) tutti che gli insediamenti non servono alla sicurezza di Israele, e che l’argomento strategico non ha più (se mai ha avuto) alcuna consistenza. Al contrario, molti osservatori ritengono che per la sicurezza dello stato le colonie non solo siano inutili ma anzi un problema che costringe di fatto Israele a un’enorme spesa in termini di vite umane dei soldati mandati a proteggere qualche migliaio di fanatici barricati a Hebron o Nablus, di denaro e di immagine a livello internazionale. Tutto questo, naturalmente, senza contare l’impatto sulla vita dei palestinesi.
Superata dunque la finzione della presunta utilità strategica degli insediamenti, oggi è un’altra la faglia ideologica che divide gli israeliani sulle colonie. Da una parte c’è chi pensa che l’occupazione corroda la democrazia, dall’altra i sostenitori del diritto inalienabile dato da Dio agli ebrei sulle regioni bibliche di Giudea e Samària. Nell’incandescente clima politico di un paese diviso quanto altri mai, i coloni definiscono regolarmente gli attivisti “traditori”. Le violenze di cui migliaia di giovani estremisti – a partire dal famigerato movimento dei “giovani delle colline” e di frange di suprematismo ebraico ridotte ma in crescita – si fanno sempre più spesso responsabili colpiscono non solo i palestinesi o i non ebrei in genere, ma anche gli attivisti ebrei, i quali dal canto loro accusano i coloni di essere stati ed essere la principale causa della trasformazione di Israele in senso illiberale. Sono numerose le ong con base in Israele che autonomamente si battono per due medesimi obiettivi: l’uguaglianza giuridica dei quindici milioni di persone che vivono tra il Mediterraneo e il Giordano e la pace, che è poi un altro nome per indicare la sicurezza nel rispetto dell’altro. Una visione che accomuna tante realtà indipendenti consente il coordinamento realizzato dal Forum delle organizzazioni israeliane per la pace.
Le ong, oltre a realizzare interventi sul campo nei territori palestinesi, cercano di influenzare l’opinione pubblica israeliana. In Israele – nelle scuole innanzitutto e in generale negli spazi di formazione dell’opinione pubblica – si parla poco dell’occupazione e dei palestinesi, se non collettivamente come nemici. In parte è comprensibile, dal momento che permangono il rifiuto da parte palestinese di Israele, la propaganda e il terrorismo. Ma se è comprensibile non per questo è inevitabile o giusto. Un altro terreno di scontro è l’archeologia. I coloni cercano nelle campagne di scavo conferma della storia dell’antico Israele, ma sono impermeabili a ritrovamenti di altre epoche e civiltà. Tradizionalmente l’interesse delle autorità archeologiche israeliane (e i finanziamenti) va in modo sproporzionato ai luoghi biblici, ma sono numerosi i siti popolati in periodi diversi che presentano abbondanti tracce di insediamenti distinti. La manipolazione politicamente orientata dell’archeologia più che un rischio è una realtà in tutto il mondo o quasi. Tuttavia, secondo la ong Emek Shaveh, che si impegna a proteggere i resti del passato, in Israele è particolarmente frequente. Alcune ong tentano infine di costruire reti rivolgendosi a un settore specifico della società israeliana e palestinese. Per limitarsi ad alcuni esempi, Torah of Justice, fondata dal rabbino Arik Ascherman, prende spunto dai valori della tradizione ebraica per lottare per i diritti dei palestinesi delle colline della Giudea. Woman Wage Peace, nata a Sderot dopo la guerra dell’estate 2014 con Hamas, raccoglie donne disposte a spendersi contro la violenza.
Nell’ultima parte del volume sono raccolte cinque lunghe interviste a personalità di spicco che vedono con crescente preoccupazione la presenza ebraica nei territori palestinesi. Opinione comune è che l’errore più grave che mette a rischio non solo il futuro democratico, ma la stessa esistenza dello stato, sia l’inazione. Un principio in cui a eccellere è stato negli ultimi venti anni Netanyahu, oggi debolissimo capo di una coalizione ostaggio di estremisti messianici, illiberali omofobi e misogini, gente che non ha voluto o non è stata in grado di partecipare alla difesa del paese nell’esercito e fondamentalisti religiosi. Gli intervistati – dall’ex primo ministro Ehud Olmert all’ex direttore del Mossad Tamir Pardo – ritengono che la separazione tra palestinesi e israeliani sia difficile ma rimanga l’unica soluzione possibile. I coloni vogliono rendere questo impossibile e il tempo, complice la crescita demografica di chi si reputa strumento nelle mani di Dio, è indubbiamente dalla loro parte. Per il politologo americano Ian Lustick il limite è già stato superato, con la conseguenza di spostare l’obiettivo realistico: non più la separazione in due stati ma pari diritti per tutti coloro che abitano la regione. Il tramonto definitivo del sionismo, dunque, nella prospettiva di uno stato binazionale. Se si accetta questa prospettiva, la lotta per la pace tra ebrei e arabi non può più essere disgiunta dalla lotta per l’uguaglianza di ebrei e arabi. La mancanza da parte palestinese di un interlocutore credibile interessato alla pace, se anche corrisponde a una tragica verità, troppo a lungo è stata usata da Netanyahu e da chi alla pace non è interessato come argomento per giustificare la mancanza di strategia e la conseguente inazione. Secondo Pardo non importa se non c’è un partner con cui trattare. Israele deve ritirare comunque unilateralmente i civili – escludendo quelli dei grandi blocchi di insediamenti, per i quali i palestinesi vanno compensati con terre israeliane – e mantenere una presenza militare fino a quando i palestinesi non saranno in grado di governarsi da soli. Ai coloni messianici che guidano il movimento degli insediamenti lo stato, la democrazia e il sionismo non interessano. Interessa la terra, perché – dicono – a darla ai loro remoti antenati è stato Dio.
Pietro Frenquellucci, Israeliani contro. La battaglia per i diritti umani dei palestinesi, prefazione di Ugo Tramballi, Leg, Rimini 2023, 254 pp., 20 €.