IUDAICA LUMINA

di Emanuele Azzità

Di stampe e di stampatori

Forse un giorno noi ebrei, per poter leggere durante lo Shabbat e le feste, resteremo gli unici a usare i libri di carta, così come oggi siamo rimasti gli unici a scrivere a mano su rotoli di pergamena. Così scriveva Anna Segre su Moked il  7/11/2014. L’ex-direttrice di Ha Keillah si riferiva all’apertura a Torino della libreria e caffè letterario “Bardotto”, il riferimento però si estende in generale al rapporto tra il Popolo Ebraico e i libri. Un legame indissolubile, imprescindibile dalla libertà. Chi legge i libri non solo è intimamente libero, ma è padrone del suo tempo. La letteratura trascende gli spazi, ma si estende nel tempo. Chi per millenni è vissuto nell’esilio come il Popolo del Libro, se alza gli occhi altro non può vedere che orizzonti, non confini!

Il commento di Rashì alla Torah finito di stampare a Reggio Calabria il 17 luglio 1475 è considerato come il primo libro ebraico stampato in Italia, vent’anni dopo la Bibbia di Gutenberg, anche se non si esclude che ce ne siano stati dei precedenti. A proposito, qualcuno ha avanzato l’ipotesi che l’inventore della stampa a caratteri mobili potesse essere di famiglia marrana. Poche sono infatti le notizie su di lui: Gutenberg o Judenber? La vita non era facile per gli ebrei nell’Europa di quei tempi.

Gli Ebrei in Piemonte erano stati ufficialmente ammessi nel 1424 giusto trent’anni  dopo la loro espulsione dalla Francia. Sei anni dopo gli Statuta Sabaudiae  del duca Amedeo VIII di Savoia posero  nei loro confronti una serie di restrizioni pur nell’ambito di una discreta e altalenante tolleranza protrattasi fino alla completa emancipazione del 1848.

Nel XVI secolo agli ebrei fu concesso di laurearsi in medicina col permesso del vescovo di Torino, di avere propri cimiteri, di avere degli immobili, di costruire delle sinagoghe e di nominare un rabbino quale arbitro dei  conflitti interni alla comunità. Nel 1572 un decreto consentiva di stampare o di possedere libri (anche in ebraico), purché non fossero annoverati nell’Indice dei Libri Proibiti (voluto da Papa Paolo IV nel 1559) . Tale disposizione pare fosse stata sollecitata da Hayyim Colien (Vitale di Sacerdoti)[1].

Giuseppe Conzio nacque probabilmente alla fine della seconda metà del XVI secolo. Suo padre Gerson (Jerson) rabbino di Chieri sarebbe invece morto nel febbraio del 1615.

Giuseppe fu scrittore e stampatore. Diede alle stampe nella tipografia di Virgilio e Francesco Zangrandi di Asti due opere in italiano: Il Canto di Judit (1614) e Cinque enigmi con la conveniente esposizione, (1617).

Ottenuta la licenza da Carlo Emanuele I avviò, con l’aiuto del figlio Abramo, una tipografia a Chieri. In quel periodo diede alle stampe molte sue opere in versi sia a Chieri che ad Asti. Per lo più erano opere di poche pagine. Si trattava di componimenti scritti in ebraico riguardanti il Talmud, commenti alla Torah, ma anche indovinelli e poesie.

Nell’estate 1630,  però, a Chieri scoppiò improvvisa “la collera di Dio”, ossia una micidiale epidemia di peste che fece vittime fino all’anno successivo  falcidiando indistintamente cristiani ed ebrei. Sembra che la prima vittima fosse la moglie di un Marrachen Verona di nome Rosa. La peste uccise anche Abramo, il figlio e aiutante di Giuseppe nell’aprile  1631.

Il filologo latinista Tommaso Vallauri cita a pag. 458  della sua Storia della Poesia in Piemonte (anno 1841) un Canto lugubre di novanta terzine ebraico-rabbiniche: “Sulla mortalità degli Israeliti patita in Chieri nel gran contagio pressoché generale negli anni 1630, 1631” di Conzio Giuseppe, ebreo, di Chieri.

L’opera è citata anche dal teologo cattolico Gioachino Montù nelle sue Memorie storiche del gran contagio in Piemonte negli anni 1630 e 1631 pubblicate nel 1830.

Nulla si sa sulla morte di Giuseppe Conzio avvenuta sicuramente dopo il 1633, dopo la ristampa di un suo commentario a Ester.


[1] DIZIONARIO BIOGRAFICO DEGLI ITALIANI (1983)