LA DEPORTAZIONE DEGLI EBREI DA RODI E KOS – Un progetto partecipativo per una storia di tutti

di Sara Buda, Liliana Picciotto e Daniela Scala

Il 23 luglio 2024 saranno passati ottant’anni dal tragico giorno in cui inizia uno dei viaggi più lunghi della deportazione verso Auschwitz, quella delle comunità ebraiche delle isole del Dodecaneso.

Per capire di cosa stiamo parlando e del motivo per cui ci riguarda dobbiamo fare un passo indietro, al 1912, quando questo gruppo di isole, di cui fanno parte Rodi e Kos (italianizzato con Coo) – sedi di ben integrate comunità ebraiche sefardite – passano dal dominio turco a quello italiano.

Nell’aprile-maggio di quell’anno il Regno d’Italia occupa le isole del Mar Egeo appartenenti all’Impero Ottomano, nel quadro della guerra per il controllo della Libia e della Tripolitania. La sovranità viene riconosciuta formalmente dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale con il Trattato di pace di Losanna del 24 luglio 1923. Agli abitanti viene quindi concesso il diritto di optare tra mantenere la cittadinanza turca o acquisire la “piccola cittadinanza” italiana, così definita, perché limitata ad alcuni specifici diritti. Gli ebrei, che costituiscono una comunità insediatasi pacificamente nelle isole dopo la loro cacciata dalla Spagna alla fine del XV secolo, optano in maggioranza per la seconda e per l’adozione della lingua e della cultura italiane.

Nel 1931 la comunità ebraica di Rodi e Kos è costituita da circa 4.500 membri, un numero che progressivamente diminuisce, fino a circa la metà, a causa di diversi fattori, tra cui il grande flusso migratorio che si apre con la crisi finanziaria del ‘29 e diviene massivo con le leggi antiebraiche del 1938. Le partenze si dirigono verso l’Africa, gli Stati Uniti d’America, l’America Latina e la Palestina mandataria, dove si creano nuove comunità ebraiche all’interno delle quali i rodioti mantengono gli usi della tradizione ebraica rodiota.

Nell’autunno del 1938, infatti, le stesse restrizioni dei diritti civili e delle libertà individuali applicate in Italia vengono estese al Dodecaneso: espulsione degli alunni dalle scuole, licenziamento dai pubblici uffici, vendita forzata di proprietà eccedenti il limite imposto per legge, per citarne solo alcune.
La vita sulle isole si aggrava con l’inizio della guerra, in particolare a Rodi, dove una serie di bombardamenti colpisce duramente il quartiere ebraico, posto nelle vicinanze del porto dell’isola. Molte famiglie ebraiche decidono quindi di sfollare nei villaggi.

Con la firma dell’Armistizio tra Italia e potenze Alleate, il Dodecaneso, come il resto dei territori italiani, viene invaso dalle armate tedesche l’11 settembre 1943. Tuttavia, solo nel giugno 1944, l’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA) dispone l’avvio della Shoah a Rodi e Kos, cogliendo di sorpresa le comunità che durante i nove mesi di inazione tedesca avevano sviluppato un letale, falso senso di sicurezza.
Il 13 luglio 1944, il Comando germanico diffonde l’ordine di residenza obbligatoria in Rodi e nei villaggi circostanti.  Il 19 luglio un altro ordine, più perentorio, costringe tutti gli uomini sopra i 15 anni a presentarsi al Comando dell’Aviazione italiana, muniti di carte di identità e permessi di lavoro.  Recatisi in massa per quello che sembra un controllo amministrativo, gli uomini vengono rinchiusi senza poter più uscire o dare proprie notizie. Viene quindi diramata una nuova ordinanza ingannevole, rivolta a donne e bambini, ai quali viene prescritto di presentarsi entro 24 ore, con denaro e beni preziosi al fine di ottenere il rilascio degli arrestati. Il giorno dopo, ormai, tutta la comunità si trova nelle mani tedesche. Tra loro solo i 42 ebrei di cittadinanza turca vengono rilasciati dietro richiesta del console della Turchia, Paese neutrale durante il conflitto.
Il 23 luglio 1944 l’intera comunità ebraica, tra cui molti bambini, donne gravide e anziani, è condotta a piedi verso il porto commerciale, in una città resa deserta da un falso segnale d’allarme aereo. Oltre 1.700 persone vengono rinchiuse nelle stive soffocanti  di tre imbarcazioni per il trasporto animale. In un solo giorno, la numerosa e plurisecolare comunità ebraica di Rodi viene sradicata.
Lasciato il porto, il convoglio navale effettua una sosta per congiungersi con la nave porta-carbone sulla quale erano stati stipati gli altri ebrei arrestati nella retata condotta sull’isola Kos.
Chiusi sottocoperta, con un caldo soffocante, privi di acqua e servizi igienici, alcuni di loro muoiono durante la traversata.  All’arrivo al porto del Pireo di Atene, i prigionieri vengono portati in camion alla prigione di Haidari, a nord della città. Le guardie tedesche scatenano ogni violenza su adulti e anziani, causando ulteriori decessi.
Il 3 agosto, il gruppo viene portato alla stazione di Atene e caricato su carri piombati destinati al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Il trasporto giunge a destinazione il 16 agosto 1944, dopo un viaggio di quasi un mese, e al loro arrivo più di mille persone vengono immediatamente avviate alle camere a gas.
Si tratta di una storia ancora oggi poco nota al di fuori delle comunità direttamente o indirettamente toccate dalla vicenda, quasi del tutto sconosciuta in Italia, nonostante il forte legame con il nostro passato.
Gli ebrei dei Possedimenti egei vengono arrestati e deportati perché considerati ebrei italiani. I membri della comunità che avevano scelto di mantenere la cittadinanza turca vengono rilasciati.

La scelta relativa alla cittadinanza influisce anche sul ritorno alla vita dei 179 sopravvissuti alla Shoah che nel 1945 vengono rimpatriati principalmente in Italia. Alcuni decideranno di stabilirvisi in maniera stabile, come Sami Modiano che, dopo un periodo in Congo, torna a Ostia (Roma) con la moglie Selma, anche lei originaria di Rodi, la cui famiglia rappresenta l’unico caso finora conosciuto di ebrei che riescono a nascondersi nelle campagne dell’isola durante l’occupazione nazista, sfuggendo alla deportazione.
Altri dall’Italia raggiungono parenti o conoscenti precedentemente emigrati in diversi paesi del mondo. Queste comunità rappresentano il filo ininterrotto che mantiene viva la tradizione e la memoria dell’ebraismo rodiota, una continuità che lega ancora oggi i discendenti della comunità di Rodi ai luoghi della Juderìa, dove una comunità ebraica vive grazie ai molti che vi si recano alla ricerca delle proprie origini o per raccontarle ai turisti, per celebrare momenti importanti quali bar e bat mitzvà o matrimoni.

Abbiamo scelto così di intitolare il progetto “Ebrei di Rodi. Eclissi di una comunità 1944-2024”, usando una metafora che descrive una presenza ebraica cancellata in poche ore ma che, a differenza di altre comunità, sopravvive altrove, dentro e fuori Rodi, oltre la Shoah, nelle tradizioni e nella memoria di questa comunità di sopravvissuti e di discendenti.
Il progetto è disegnato proprio su questo carattere diffuso. Abbiamo voluto coinvolgere il più possibile gli istituti che nel mondo si occupano di questa storia, costruendo una rete di partenariato che include la Comunità ebraica di Rodi con il suo Museo, la Rhodes Jewish Historical Foundation di Los Angeles, lo Yad Vashem di Gerusalemme e la Fondazione Museo della Shoah di Roma.
Abbiamo cercato di travalicare i confini linguistici rendendo la fruizione dell’installazione e del portale integralmente in doppia lingua, italiana e inglese, anche allo scopo di aprire un canale diretto con i discendenti e con chiunque possa contribuire con documenti e ricordi a una ricerca tutt’altro che conclusa.
Grazie a questa apertura alla collaborazione con enti e singoli, abbiamo creato sinergie preziose che permettono alla ricerca di raggiungere risultati sempre più precisi, facendo emergere nuovi ed importanti elementi. Solo qualche settimana fa, ad esempio, abbiamo rinvenuto il caso di una persona inizialmente inserita nell’elenco dei deportati che risulta invece essere fuggita il giorno dell’occupazione nazista, portando alla correzione del numero dei deportati che ora annovera 1.816 persone.
Il progetto, avviato nel novembre 2022, ha riaperto una ricerca che si pone in continuità e a completamento del pluriennale lavoro della Fondazione CDEC sui nomi della deportazione dai territori italiani.

Per sottolineare l’importanza di questa storia abbiamo realizzato un progetto di restituzione pubblica che si compone di una installazione fisica e del portale online. Attraverso questi due strumenti, due spazi con linguaggi diversi, abbiamo voluto elaborare una rappresentazione visiva dei risultati della ricerca della Fondazione CDEC, accorciando le distanze tra ricerca e fruizione pubblica.
Abbiamo voluto un’installazione e non una mostra, che coinvolgesse direttamente i visitatori, avvicinandoli fisicamente ed emotivamente alla storia della deportazione dai Possedimenti italiani, lasciando loro la scelta sulle modalità e i tempi per l’approfondimento. Nel percorso della visita sono infatti inseriti dei QR-code che permettono al visitatore di familiarizzare con il portale e approfondire temi e biografie dal proprio cellulare nel tempo della visita oppure in un momento diverso.
L’installazione, visitabile presso il Memoriale della Shoah di Milano fino al 2 settembre, si compone di una selva di 1.817 elementi verticali che rappresentano ciascuno una delle persone deportate. I fili hanno lunghezze diverse in base all’età raggiunta da ognuno al momento della deportazione, restituendo immediatamente al visitatore che il filo rappresenta un neonato, un bambino, un ragazzo, un adulto, un anziano. Ulteriore dato che viene reso immediato attraverso l’uso del colore dei fili è il destino di ognuno: in bianco tutti coloro che non hanno fatto ritorno e in blu, il colore del mare, i 179 sopravvissuti.
Inaugurata il 9 maggio, l’installazione si componeva di soli fili, senza alcun nome, lasciando che fosse la partecipazione del pubblico a rendere completa l’azione di memoria, appendendo a ognuno dei fili un cartellino riportante il nome, il cognome, la data di nascita, il nome del padre e della madre di ciascun deportato. Un’operazione che simula gli scopi della ricerca e che viene simbolicamente affidata anche ai visitatori dell’installazione chiamati a completare una storia e una memoria altrimenti sfumate nei contorni e nella rilevanza che esse hanno nel nostro presente.

Il portale online è costruito per offrire uno spazio di studio permanente che integra e arricchisce l’installazione. Si compone di un Monumento commemorativo dei nomi dei deportati ai quali è collegata una scheda con tutti i dati ricostruiti e i documenti rinvenuti attraverso la ricerca. Attraverso la pagina della Ricerca Avanzata si è voluto mettere a disposizione uno strumento per ricercatori, studenti, discendenti e appassionati di storia che vogliano conoscere il destino di un singolo deportato oppure ottenere i numeri della deportazione attraverso l’uso di diversi filtri.
Vi è poi una sezione dedicata al contesto storico in cui una Timeline arricchita con documenti scritti, fotografici e audiovisivi fornisce le coordinate principali della vicenda degli ebrei deportati dai Possedimenti.
Il portale è pensato come un luogo in continuo arricchimento e offre la possibilità di interazione con gli utenti, che possono segnalare al CDEC nuovi documenti e dati rilevanti per la ricerca.
Una visione di storia pubblica e partecipata attorno alla quale abbiamo costruito l’intero progetto.

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