LA GAZA LADRA: COME LA GUERRA HA RUBATO LA SERENITÀ AGLI EBREI AMERICANI

Intervista a David Calef
a cura della Redazione

 

Do I contradict myself?
Very well then, I contradict myself.
(I am large, I contain multitudes).

Walt Whitman, 1855

 Tra quattro mesi gli americani andranno a votare per eleggere il presidente e rinnovare il Congresso e parte del Senato. L’esito del voto potrebbe cambiare il corso della storia negli Stati Uniti e in gran parte del mondo. L’offensiva israeliana a Gaza influenzerà il risultato delle elezioni? Come voterà la comunità ebraica americana?

Abbiamo rivolto alcune domande a David Calef, redattore di Ha Keillah, che ha vissuto per molti anni a Boston e che segue da vicino le vicende della più grande comunità della diaspora.

HK: La diaspora USA è diversa, politicamente, dalla diaspora europea?

Direi di sì. Le comunità della diaspora sono molto articolate al proprio interno, sia rispetto al grado di osservanza religiosa sia all’affiliazione politica. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, in quasi tutte le comunità diasporiche europee, il baricentro politico negli ultimi decenni si è progressivamente spostato verso destra. Ciò è vero, per esempio, in Francia e in Italia.
Negli Stati Uniti, anche tenendo a mente la differente offerta politica (negli Stati Uniti non ci sono partiti socialisti, comunisti, ecologisti, o comunque non prendono voti), la situazione è diversa. Dalle elezioni presidenziali del 1928 in poi, gli ebrei hanno sempre votato in larga misura per il candidato democratico.
Questa fedeltà al partito più progressista attraverso quasi un secolo di consultazioni elettorali è un po’ un’anomalia perché, storicamente, gli americani (protestanti, cattolici) quando raggiungono uno status sociale e i livelli di reddito e di istruzione simili a quelli degli ebrei tendono a votare repubblicano. Come diceva già negli anni Settanta Milton Himmelfarb, un noto intellettuale neoconservatore, “gli ebrei guadagnano come gli episcopaliani e votano come i portoricani”.  Oggi siamo lontani dai tempi di Franklin D. Roosevelt che nel 1936 e nel 1940 raccolse il 90% del voto ebraico, ma anche in tempi recenti, i candidati democratici, sia quelli che poi sono stati eletti – Bill Clinton, Barak Obama e Joe Biden – sia quelli che hanno perso (Hillary Clinton) hanno tutti conquistato almeno il 70% dei consensi tra gli ebrei.

A fronte di un solido consenso per il partito democratico, esiste una minoranza che vota repubblicano. Da una decina di anni a questa parte sono soprattutto gli ultraortodossi che votano in tal senso e dal 2016 votano con entusiasmo anche per Trump. Un sondaggio recente (febbraio 2024) sulle simpatie politiche degli ebrei ortodossi (ortodossi moderni e ultraortodossi) ha rilevato che oltre il 90% degli Haredim è pronto a votare per l’ex presidente. Allo stesso tempo, gli Haredim, nonostante siano spesso strenuamente antisionisti – come nel caso dei Satmar (movimento chassidico) – Aggiungo che votare democratico non significa votare a sinistra tout court come possiamo intenderla noi in Italia. I democratici possono essere considerati progressisti su questioni come aborto, separazione tra stato e chiesa, diritti civili a favore di minoranze, salario minimo, sostegno a programmi di welfare come Medicaid e Medicare. Ma su politica estera, bellicista per contrastare il comunismo, il terrorismo islamico o a favore della “promozione della democrazia” (vedi guerre in Vietnam, Afghanistan, Iraq), o sull’influenza dell’imprenditoria privata nella gestione della cosa pubblica, le differenze tra repubblicani e democratici non sono così nette, o almeno non lo sono state per tutto il secondo dopoguerra e nella prima decade degli anni 2000. Però è anche vero che a partire dall’amministrazione di George W. Bush (2001), il partito repubblicano si è talmente spostato a destra che le differenze sono più evidenti. Inoltre, negli ultimi anni sono emersi politici democratici che appoggiano programmi un tempo tabù come sanità pubblica gratuita e opposizione alla pena di morte.

HK: C’è una relazione tra l’appartenenza a una comunità e l’orientamento politico?

Come intuibile da quanto ho detto il criterio che spiega meglio il voto ebraico negli Stati Uniti è piuttosto semplice: più è alto il livello di osservanza religioso, maggiore è la probabilità che un ebreo americano voti per il partito repubblicano. I riformati, i conservative, gli ebrei che non abbracciano alcuna particolare corrente e, in misura minore, gli ortodossi tendono a votare democratico. Questa preferenza non vale affatto per gli ultraortodossi che stravedono per Trump e arrivano ad apprezzare (il 57%) alcune delle politiche proposte dai membri più estremisti del governo Netanyahu: l’occupazione israeliana della striscia di Gaza e l’espulsione dei suoi abitanti palestinesi.

HK: Dopo il 7 ottobre è cambiato l’orientamento politico delle comunità ebraiche americane?

Lo sapremo con certezza solo a novembre, ma non credo. La situazione d’incertezza dipende da molti fattori, inclusi l’esito dei processi penali contro Trump, l’andamento della guerra in Ucraina, la campagna militare a Gaza ed eventuali défaillance dei due candidati. I sondaggi prevedono spostamenti del voto piuttosto limitati, ma poiché negli Stati Uniti non è il voto popolare a determinare chi sarà eletto presidente bensì il voto dei collegi elettorali, modesti cambiamenti delle preferenze negli stati in bilico (Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, Pennsylvania, Virginia e Wisconsin) possono determinare il vincitore della competizione elettorale. Parliamo di poche migliaia di voti che però in tali stati faranno la differenza. È possibile che una modesta percentuale di giovani democratici, inclusi quelli ebrei, non voti Biden per protestare contro il suo sostegno ad una campagna militare che ha causato decine di migliaia di morti a Gaza, la maggior parte dei quali civili. Questo è vero anche per la minoranza arabo-americana – di solito favorevole ai democratici – che potrebbe astenersi o votare per uno dei candidati senza speranze: Cornell West, Jill Stein e Robert Kennedy. Se si realizzasse uno scenario di questo tipo nel Michigan, dove risiedono circa 200.000 americani di confessione musulmana, Biden potrebbe perdere lo stato e rischiare la presidenza. Ciò detto, anche questa volta, tra i due terzi e i tre quarti degli ebrei americani voteranno per Biden. A Trump andranno i voti degli ultraortodossi e di una manciata di miliardari ebrei, come Miriam Adelson, Jan Koum, e Paul Singer che da anni finanziano l’espansione di insediamenti in Cisgiordania.

HK: In Italia abbiamo l’UCEI che raccoglie però esclusivamente comunità cosiddette ortodosse. C’è qualcosa di analogo negli USA?

Negli Stati Uniti non esiste una istituzione come l’UCEI che riconosce e rappresenta esclusivamente l’ebraismo ortodosso ma intende rappresentare tutti gli ebrei italiani anche quelli che ortodossi non sono o come il Conseil Représentatif des Institutions Juives de France (CRIF) che ha un ruolo simile ma è più aperto verso le diverse correnti dell’ebraismo. Gli ebrei americani che sono per lo più riformati (37%), conservative (20%) o non si identificano con alcuna corrente in particolare (32%) hanno spesso un legame con una sinagoga di quartiere ma non necessariamente esclusivo. La maggiore flessibilità rispetto al contesto italiano fa sì che ci sono famiglie in cui ci si sposa con un rabbino Chabad, si chiama una rabbina riformata per effettuare una brit milah (circoncisione) e poi magari, si frequenta una sinagoga conservative.

Esiste una miriade di organizzazioni. Ve ne sono tre, molto diverse per mandato dall’UCEI, ma che per certi versi le assomigliano per il modo totalmente acritico in cui sostengono le politiche di Israele: l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), l’Anti-Defamation League (ADL) e l’American Jewish Committee (AJC). Hanno origini e mandati differenti ma da anni tutte e tre sostengono le politiche di Israele in modo totalmente acritico. I governi israeliani, secondo ADL, AIPAC e AJC non sbagliano mai. È interessante notare l’evoluzione di queste organizzazioni. Prendiamo l’esempio di AIPAC, uno dei più importanti gruppi di pressione in attività negli Stati Uniti. Il suo obiettivo è respingere qualunque critica della politica del governo israeliano, sostenendo finanziariamente i candidati che  garantiscono lealtà a Israele e assicurando così il sostegno degli Stati Uniti a tutte le sue iniziative, indipendentemente dalla loro legalità (occupazione dei Territori Occupati) o conformità ai principi del diritto internazionale (ostruzione degli aiuti umanitari diretti a Gaza). Visto che a novembre, oltre ad eleggere il presidente, gli americani voteranno per i 435 membri del Congresso e per 33 senatori (su 100), AIPAC sta investendo risorse massicce (decine di milioni di dollari) per impedire l’elezione dei democratici che sostengono il cessate il fuoco a Gaza, posizione sostenuta dalla stragrande maggioranza degli elettori democratici.

Una volta AIPAC ci teneva ad essere bipartisan, mantenendo buoni rapporti sia con i democratici, sia con i repubblicani. Da molti anni a questa parte, la situazione è cambiata. Israele è stabilmente governato da coalizioni di destra o estrema destra in sintonia con i nazionalisti blut und boden (sangue e terra) d’Europa (Orban, Kaczynski e Abascal) i quali trescano in modo anche sfacciato con l’antisemitismo. Non c’è da stupirsi che deputati e senatori americani democratici, ebrei e non, abbiano cominciato a manifestare insofferenza e dissenso verso governi israeliani che promuovono le politiche tipiche di formazioni ultra-conservatrici e razziste.

L’AIPAC ne ha tratto le dovute conseguenze abbandonando quasi ogni pretesa di equilibrio: l’anno scorso l’organizzazione ha sostenuto finanziariamente decine di parlamentari che avevano contestato il risultato delle elezioni presidenziali del 2020 e si rifiutavano di prendere le distanze dagli insorti del 6 gennaio. Ormai, AIPAC coltiva alleanze con chiunque purché sostenga senza esitazioni il governo israeliano. Nessun problema quindi a intrattenere rapporti cordiali con movimenti evangelici che nel sionismo vedono la promessa di una futura realizzazione di escatologie millenariste (il Secondo Avvento di Cristo e l’apocalisse) che sono spesso esplicitamente antisemite. È noto che per molti evangelici (15 milioni circa) il ritorno degli ebrei nella loro patria biblica (la Cisgiordania) sia una precondizione per il secondo avvento e per la conversione degli ebrei al cristianesimo. Quelli che non fossero disposti a convertirsi saranno dannati per la loro miscredenza. Nel mondo di AIPAC si può essere allo stesso tempo sionisti e antisemiti.
Per ottimizzare l’obiettivo di appoggiare senatori e membri del congresso pronti a difendere Israele senza farsi troppe domande AIPAC continua a finanziare candidati democratici a patto che si impegnino nel ruolo di difensori di Israele, soprattutto nei distretti elettorali dove competono con altri democratici che, al contrario, si sentono liberi di criticare le politiche israeliane.

Diversamente da AIPAC, ADL e AJC non finanziano le campagne elettorali di candidati al congresso o al senato americano. Sono state create agli inizi del secolo scorso per un obiettivo nobile e necessario: contrastare l’antisemitismo. Tuttavia, da molti anni a questa parte le due organizzazioni sono innanzitutto impegnate a difendere con ogni mezzo l’immagine dei governi israeliani a guida Likud. Entrambe condividono nell’esecuzione di questo compito la strategia di tacciare di antisemitismo chiunque osi sollevare dubbi sulla condotta di Israele nei Territori Occupati e a Gaza.
Direi comunque, che la strategia propagandistica di ADL e AJC funziona sempre meno con gli ebrei sotto ai 35 anni che non credono più che Israele sia alle prese con una battaglia esistenziale come Davide contro Golia perché da anni conoscono un paese sempre più illiberale reso forte e invincibile grazie al sostegno incondizionato degli Stati Uniti.

HK: In che misura il rabbinato USA è condizionato da quello israeliano?

Rispetto a quello italiano, il sistema americano è molto più pluralista. Non esiste un solo rabbinato visto che negli Stati Uniti ci sono ebrei riformati, conservative, ricostruzionisti, ortodossi e ultraortodossi oltre a quelli che non si riconoscono in nessuna di queste correnti. Nessuna corrente prevale rispetto alle altre, nessuna ha più diritti rispetto alle altre. Tutte hanno un solido legame con Israele ma non si fanno problemi a criticare il rabbinato israeliano se ne sentono l’esigenza. Per esempio, da molti anni, i rabbini riformati e i conservative contestano duramente il monopolio religioso mantenuto in Israele dall’ebraismo ortodosso ritenendo che ciò pregiudichi la libertà di religione.

La risposta alla domanda Chi è un ebreo? è fonte di grande tensione tra il rabbinato israeliano e la diaspora nord-americana. Basta pensare che solo nel 2021 la Corte Suprema israeliana ha riconosciuto che individui convertiti all’ebraismo da rabbini conservative e riformati sono considerati ebrei anche dallo Stato. Se fosse dipeso solo dal Rabbinato ortodosso questa rivoluzione non sarebbe mai accaduta.
Bisogna poi tenere conto che le comunità ebraiche europee, con l’eccezione di quella francese e quella inglese, sono molto piccole e comunità con poche decine di migliaia di membri fanno fatica a prendere posizioni autonome rispetto al rabbinato israeliano anche quando quest’ultimo si dimostra oltranzista o retrogrado. La mia impressione – posso sbagliarmi perché non sono un esperto in materia – è che dopo Elio Toaff, i rabbini italiani seguano con deferenza le indicazioni del rabbinato israeliano. Un comportamento inconcepibile per la maggior parte dei rabbini americani.

HK: Anche negli USA si evoca lo spettro dell’antisemitismo per coprire l’orrore della guerra?

Sì. Ci sono organizzazioni di cui ho già parlato come l’Anti-Defamation League che pubblicano rapporti allarmati e allarmanti sull’antisemitismo ma, a mio giudizio, travisano intenzionalmente la natura del fenomeno, in modo strumentale per tutelare la reputazione non più degli ebrei, ma di Israele. Intendiamoci, l’antisemitismo prospera anche negli Stati Uniti dove gli episodi di ostilità nei confronti degli ebrei sono cresciuti di numero e d’intensità soprattutto durante la presidenza Trump. Il peggiore di tutti, l’attentato alla sinagoga Tree of Life a Pittsburgh nel 2018 dove 11 ebrei vennero assassinati da un estremista di destra, ha scosso il senso di sicurezza di cui la comunità ebraica americana ha goduto negli ultimi 60 anni. Ma ADL, ben prima delle recenti manifestazioni di protesta nei campus americani dove sono accaduti episodi deplorevoli di intolleranza e antisemitismo, amplifica i pericoli dell’pregiudizio antiebraico “di sinistra” minimizzando quello molto più pericoloso dei politici trumpiani e della base che questi rappresentano, compresi i suprematisti bianchi.
Prigioniera dei suoi pregiudizi, nelle sue statistiche, ADL registra come episodi di antisemitismo ogni critica a Israele, comprese banali espressioni di solidarietà con i palestinesi, incluse quelle fatte da ebrei, per esempio Jewish Voices for Peace (formazione antisionista) o If Not Now che criticano apertamente uno stato che non ha alcuna intenzione né di lasciare i Territori Occupati né di abbandonare l’assedio permanente a Gaza per trovare una soluzione politica al conflitto con i palestinesi. La faziosità di ADL ha raggiunto un livello tale che il mese scorso, i redattori di Wikipedia hanno concluso che l’organizzazione non può essere più ritenuta una fonte affidabile di dati e notizie sull’antisemitismo perché tende a classificare critiche legittime a Israele come antisemitismo.

HK: E le proteste nelle università?

Le proteste degli studenti nelle università sono state un fenomeno importante e spesso interpretato – secondo me a torto – come una manifestazione dell’antisemitismo dilagante nella società statunitense.
Credo invece che la maggior parte di coloro che hanno occupato i college americani tra aprile e maggio abbiano protestato per esprimere la loro condanna per il massacro dei palestinesi che a primavera aveva fatto già circa 25,000 vittime civili oltre ad aver reso inabitabile la striscia di Gaza.
Un movimento di protesta che ha coinvolto oltre cento università in 36 stati è necessariamente eterogeneo e ha senz’altro attratto individui e gruppi che non hanno esitato a sfruttare le proteste per esibire sentimenti antisemiti. Uno dei casi più eclatanti è stato quello di Khymani James, uno dei leader della protesta alla Columbia University che in un video ha affermato che “i sionisti meritano di morire”. A maggio, quando il video è circolato sui media, James ha ritrattato ed è stato espulso dall’università. Altrettanto scalpore hanno destato le dichiarazioni rilasciate da alcuni membri di Students for Justice in Palestine in particolar modo hanno rilasciato dichiarazioni di sostegno ad Hamas o si sono pronunciati in favore di azioni violente nei confronti di civili israeliani. Episodi come questi hanno giustamente richiamato la censura dei media e degli amministratori delle università, i quali peraltro hanno avuto la pessima idea di chiamare la polizia nei campus. Ed è stato solo allora – in un quadro di proteste sostanzialmente pacifiche – che si sono viste scene di violenza a UCLA, Dartmouth, Emory tra le altre. L’ottusità morale degli studenti che minimizzano i crimini di Hamas ha un corrispettivo  nell’indifferenza dei contro-manifestanti che valutano la morte di decine di migliaia di palestinesi come un inevitabile e necessario effetto collaterale delle azioni dell’esercito “più morale del mondo”.
Se è vero che si sono visti orrendi episodi di intolleranza, di bullismo e di pregiudizio è del tutto fuorviante pensare che la maggioranza degli studenti abbia manifestato spinta dall’odio verso gli ebrei o dall’indifferenza verso le loro sofferenze. Interpretare in questo senso le proteste di decine di migliaia di studenti è un tipico esempio di nutpicking, la strategia che dà grande risalto a casi individuali estremi e oltranzisti come se fossero rappresentativi di un intero movimento.
Che le accuse di antisemitismo mosse alle proteste studentesche siano in parte pretestuose trova conferma nel fatto che alcuni degli organizzatori delle proteste contro la guerra erano ebrei, e manifestavano proprio sulla base delle loro convinzioni religiose o della loro formazione culturale ebraica. In molti campus ci sono state celebrazioni di Kabbalat Shabbat e del Seder in occasione di Pesach. Il che non deve sorprendere visto che numeri sempre crescenti di giovani ebrei americani non riescono a conciliare valori liberal con le politiche di un governo che parteggia per Trump ed è in sintonia con l’internazionale sovranista di cui parlavo prima. Già tre anni fa un sondaggio d’opinione riportava che un quarto degli ebrei americani riteneva che in Israele vige un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi che vivono nei Territori Occupati. Questa percentuale saliva al 38% tra i giovani con meno di 40 anni.

 

David Calef