di Paola Abbina
Per la prima volta, la giovane generazione si trova a imbracciare le armi in massa per difendere concretamente il diritto di Israele ad esistere.
Non è la guerra del ’67, forse neanche quella nel ’73, anche se probabilmente la vecchia generazione associa le sensazioni di oggi a quelle di allora. Ma per i ragazzi quelle erano storia, parte fondante del mito, memoria storica e spesso familiare, ma non esperienza diretta, non personale.
Nel recente passato ci sono state operazioni belliche, ma chi oggi ha 20 anni, anche meno, è mobilitato in massa per la prima volta. Questi ragazzi stanno dando la vita per l’esistenza dello stato di Israele e per il suo diritto a esistere. Coscientemente, con senso del dovere, con senso di responsabilità, senza esitazioni. Dall’inizio della guerra ne sono morti tantissimi, troppi, più di 500 se si sommano quelli caduti il 7 ottobre stesso per contrastare l’invasione e l’eccidio compiuto da Hamas. A loro vanno aggiunti tanti feriti, un numero indicibile che comprende in molti casi invalidità permanente. Eppure il morale delle truppe è alto, incredibilmente alto nonostante le difficoltà, le indecisioni politiche, il protrarsi della guerra già oltre i 100 giorni e con prospettive drammaticamente lunghissime. Quello di essere in guerra, è un sentimento che i ragazzi non avevano mai sentito così vivo. Forse era solo uno slogan, una minaccia ripetuta, ma mai una realtà così concreta. Ma oggi è diverso. I soldati, i nostri figli, e tanti riservisti, che nonostante tutto sono comunque molto giovani, si stanno confrontando con la reale minaccia che incombe su Israele. E non è solo il sud, non è solo Gaza, c’è anche il fronte nord con il Libano che sembra ogni ora più caldo e quello interno della Cisgiordania.
I soldati che si presentano volontariamente sono molti, a volte perfino troppi e così non tutti vengono arruolati.
Sono ragazzi che ormai non cresceranno più con l’illusione che Israele sia o possa diventare uno stato come gli altri, l’illusione che hanno avuto i boomer, oggi adulti, che hanno combattuto le guerre precedenti proprio sperando in una normalizzazione del paese. Questa normalizzazione però deve passare anche attraverso la società civile che dal 7 ottobre non è più la stessa. All’università i ragazzi incontrano reduci e soldati traumatizzati che sono passati da Gaza e che saranno i nuovi leader di domani, orienteranno l’opinione pubblica, faranno politica. Negli uffici faranno fatica a tornare al lavoro, a tornare a casa ed essere mariti, padri, fratelli. Anche questo è il costo del “dopo”.
Ancora nel 1994, i ragazzi intonavano “siamo i figli dell’inverno ‘73”, celeberrima canzone, scritta da chi la guerra del kippur l’aveva combattuta, e presentata al pubblico da una banda militare, a metà fra disillusione e speranza: avevate promesso la pace, dicevano ai genitori, eppure eccoci qui con l’esercito. Oggi, amaramente, gira la battuta “siamo i figli dell’autunno 2023. Prometteteci che avremo una casa”.
Israele sarà l’esperimento politico e psicologico di questa guerra di cui ancora non si conoscono gli sviluppi internazionali. Ma di sicuro, come sempre, sarà Israele e saranno i suoi giovani a trovare la via d’uscita con l’esperienza che avranno da insegnare, con la testardaggine a voler difendere e ricostruire il paese e con l’orgoglio di essere israeliani. Aspettiamo di sentire quale sarà la loro canzone.
Haifa 21 gennaio 2024