di Tali Dello Strologo
Nel mosaico di frammenti intravedo le teste coperte degli uomini della mia comunità che ondeggiano al ritmo dei canti. Infilo le dita ormai considerate adulte nei fori della mechitza lasciati scoperti come un dono per il mio sguardo amputato. Non mi è più possibile rannicchiarmi sotto la capanna di taled accostati durante l’ultima berachà (benedizione) di Kippur. Ora che sono donna, ora che sono adulta non posso più scendere nel luogo della preghiera e farmi accompagnare nella comprensione dagli uomini della mia famiglia. Ho fatto il Bat Mitzvah e il mio nuovo ruolo si è consolidato, da poco agli occhi della mia comunità sono un’altra.
Mi ci è voluto un po’ per comprendere cosa volesse dire questo “altra”. La condizione di alterità non mi era di per sé sconosciuta: l’ebraismo moderno si arrovella da sempre sulla difficile condizione di occupare un luogo marginale in una cultura dominante diversa e chi cresce in diaspora sperimenta nella sua materialità questa intrinseca scissione nel momento stesso in cui prende coscienza di sé. L’ebreo arriva a rappresentare l’emblema dell’alterità nel mondo occidentale il quale si nutre di ciò che appare estraneo per definirsi, mostrando la violenza che ne può conseguire dal momento in cui la differenza si fa gerarchizzazione.
È stata questa lente a consentirmi di comprendere pienamente la mia condizione di donna – scoprendo poi che più volte l’ebreo è stato paragonato al femminile in narrazioni svilenti e discriminatorie. Un lungo percorso di presa di coscienza mi ha portato così a osservare la subalternità costitutiva del mio genere nella storia e nella contemporaneità.
Sebbene le conquiste faticosamente ottenute nell’ultimo secolo siano numerose e abbiano portato a un ridimensionamento notevole della marginalità delle donne nel panorama attuale, il presente non rappresenta ancora lontanamente un terreno paritario. Gli ostacoli all’accesso a ruoli di potere, le disparità salariali, le esperienze di violenza, il numero annuale di femminicidi ne sono solo un parziale esempio. Le forme di discriminazione materiale che le donne subiscono hanno origine da un più ampio sistema culturale il quale si è strutturato nel tempo attraverso l’esclusione della voce femminile. Perché proprio della voce femminile? Perché gli ambiti di produzione del sapere e quindi di organizzazione della cultura sono stati e ancora in gran parte sono territorio di dominazione maschile, a cui le donne non hanno storicamente avuto accesso. Il pensiero occidentale nelle sue più svariate formulazioni è per questo un pensiero di matrice maschile che propone una visione del mondo parziale e frequentemente funzionale a reiterare il primato dell’uomo. Questo circolo vizioso conduce a una subalternità che impatta fortemente sulla vita quotidiana delle donne e richiede uno sforzo attivo per essere interrotto.
Questo sforzo secondo diverse gradazioni di radicalità si fa man mano sempre più sentito e trasversale fino ad approdare a forme di discorso che mettono in discussione l’intero sistema che produce la disuguaglianza, definito patriarcale. Siamo ormai in molte e molti a sostenere come minimo la necessità di una parità di accesso a tutti i ruoli sociali e una condivisione delle mansioni domestiche e economiche. Ci arrabbiamo quando scopriamo che un’amica ha dovuto lasciare il lavoro per occuparsi dei figli perché non ha avuto accesso agli asili nido e si è dato per scontato che fosse la sua carriera a dover essere interrotta. Ci risentiamo quando leggiamo sui giornali nomi e cognomi per descrivere gli uomini e nomignoli o nomi solitari per le donne di successo. Ci indigniamo se scopriamo che una famiglia ha investito sull’educazione del figlio maschio e non della figlia femmina, perché tanto troverà marito – come se, tra l’altro, l’educazione avesse il solo scopo di avviamento lavorativo e non di formazione della persona. Siamo pronti e pronte a lottare perché queste condizioni non si verifichino e a condannare ferocemente i paesi che ancora perpetrano misure più esplicite di discriminazione verso le donne.
Il chiacchiericcio intorno a me si intreccia leggero ai miei pensieri come nella migliore tradizione ebraica. Le mogli, le figlie, le donne si confrontano sui menù della cena che le aspetta a casa per porre fine in modo festivo alla sospensione dal mondo e quindi dal cibo. Piatti di diversissime tradizioni alimentari si accavallano senza competizione nella mia mente nutrite dalla fame e dalla noia. Dall’alto osservo mio fratello che segue la funzione. Mio fratello un giorno ha letto la sua parashà. Mio fratello ha portato in braccio i rotoli della Torah, li ha abbracciati. Mio fratello ha fatto il Bar Mitzvah, ora agli occhi della mia comunità è un uomo. Se mio fratello è presente al tempio, beh questo fa la differenza.
Sulla formazione ebraica di mio fratello si è investito perché la sua formazione è rilevante. Nelle piccole comunità diasporiche a rischio di estinzione un uomo ebreo capace di partecipare a una funzione è fondamentale. Quando ogni venerdì sera la presenza del minian (10 uomini per la preghiera collettiva) è un’incognita, tanto da organizzare una programmazione fitta per cercare di garantirla, ogni uomo ebreo è importante. La massa confusa dietro la mehitza è invece completamente ininfluente. La balconata è la rappresentazione architettonica della nostra irrilevanza: che siamo due o siamo quindici non fa alcuna differenza, dietro la ringhiera di separazione è impossibile anche solo contarci. Nessuna di noi ha letto la propria parashà, nessuna di noi ha mai abbracciato i rotoli della legge, poche di noi hanno avuto modo di studiare la Torah e il Talmud.
Ci infervoriamo di fronte alle discriminazioni di genere nella società civile ma per qualche motivo accettiamo e giustifichiamo il trattamento altrettanto violento riservato alle donne all’interno delle comunità ortodosse italiane. Il problema alla base di queste discriminazioni materiali – dalle differenti condizioni matrimoniali che penalizzano e a volte ingabbiano le donne che tentano di uscirne all’esclusione di queste dalle pratiche religiose – è lo stesso di qualsiasi altro sistema patriarcale. L’ebraismo si è sviluppato nei millenni attraverso l’esclusione delle donne dagli ambiti di produzione del sapere – e qui fermo subito chi pensa di portare l’eccezione di alcune donne protagoniste della storia interpretativa ebraica dimenticando che non fanno altro che confermare la regolarità dell’esclusione di tutte le altre.
Se generalmente il sapere è luogo di costituzione del potere, questo avviene in modo speciale nell’ebraismo a partire dalla rivoluzione rabbinica conseguente alla distruzione del Tempio. L’ebraismo si struttura attorno allo studio interpretativo dei testi e così definisce i confini della propria cultura e delle proprie leggi. La grandiosità di questo approccio è che l’interpretazione presuppone l’apertura della parola scritta, il suo non essere mai finita e quindi suscettibile di assumere nuovo volto. Come ci suggerisce Delphine Horvilleur nel testo Nudità e pudore “quando l’interpretazione cerca di fissarli [i testi] definitivamente, li profana. […] Possono restarlo [sacri] solo se si accetta che non abbiano mai finito di mostrare e dire qualcosa di nuovo.” È forse questo uno dei motivi della sopravvivenza dell’ebraismo attraverso i secoli e i continenti?
L’apertura interpretativa ha consentito al popolo ebraico di rispondere alle proprie esigenze che si manifestavano sempre come particolari in quanto eternamente dislocate. Allo stesso tempo per questo motivo ogni dibattito interpretativo è fondamentale nella formulazione di normative e di costumi che si consolidano e rafforzano secondo il principio della tradizione. Questa tradizione però storicamente non ha incluso quasi alcun intervento interpretativo femminile strutturando così un sistema di pratiche e un immaginario che perpetra la subordinazione della donna.
Come ci si confronta, dunque, con la tradizione? Le comunità ebraiche italiane, decimate da moti assimilazionistici da un lato e movimenti migratori verso Israele dall’altro, sembrano essersi irrigidite attorno a questa, forse per paura della contaminazione o della dispersione. La questione della purezza si erge a vegliare sull’ortodossia, strozzando i tentativi di conversione e gerarchizzando l’ebraismo, dimenticandone l’insita pluralità. Ma più in particolare la comunità ebraica ortodossa oggi non sta riuscendo a rispondere alle esigenze di tutti i suoi membri, ne dimentica una metà. Questa metà, fino a qualche secolo fa generalmente poco consapevole della propria esclusione sociale, oggi sperimenta la parità dei diritti e lotta per l’eguaglianza sostanziale nella società civile. Oggi le donne hanno accesso allo studio nelle istituzioni secolari e non accetterebbero mai una formazione differenziata per legge. Una forte differenziazione nell’accesso allo studio, però, si presenta ancora all’interno del mondo ebraico ortodosso, in particolare italiano, il quale non investe nell’inclusione delle donne nei percorsi di studio, se non in formule specifiche alternative o ridotte.
Come pensiamo quindi di poter apportare dei cambiamenti paritari se l’interpretazione della legge ebraica o del Talmud non include uno sguardo femminile? Quanto deve farsi eclatante questo anacronismo perché l’ebraismo ortodosso italiano affronti seriamente la questione? Quanti giovani – e non solo giovani – donne ebree devono allontanarsi dalle proprie comunità prima che l’interpretazione dei testi si metta anche a loro disposizione per farle sentire finalmente tanto protagoniste di questo popolo quanto i loro fratelli? Quante meravigliose pensatrici devono trovare rifugio altrove prima che gli studiosi le accolgano nelle loro scuole e le considerino esseri umani di pari condizione?