di Paola Abbina
Sono passati vari mesi da quella prima tiepida manifestazione di un sabato sera di inizio gennaio dove, per le strade della solita Haifa che non brilla certo per vivacità ed attivismo, c’erano solo poche centinaia di persone. Il traffico era regolare e i manifestanti si schieravano solo sui marciapiedi. Di settimana in settimana la protesta è lievitata: migliaia e poi decine di migliaia di manifestanti. All’ennesima settimana di fila, le stime parlano di centinaia di migliaia di presenze in tutta Israele. Non solo a Tel Aviv, ma anche nei posti di solito più dormienti e perfino negli insediamenti come Gush Etzion.
Il sabato sera è diventato ormai un rito, sempre più necessario e disperato per protestare contro il governo con lo slogan ben scandito di “de-mo-cra-tia” che si sente giù per il wadi di Haifa per via dell’eco. Un’eco assordante se si pensa che la protesta, da semplice manifestazione, è diventata sollevazione popolare che abbraccia vari campi politici e culturali del Paese: chi scende in piazza ora non sono più persone “di sinistra” , ma ormai è una protesta generalizzata che attraversa tutte le sponde politiche e dove per la prima volta tutti prendono la parola e combattono unitamente per una unica comune causa: dagli abitanti dei territori agli esponenti del mondo arabo e religioso di una larga fascia, da chi si dichiara di destra e si rifà a Jabotinski al rappresentante di Meretz, uno dopo l’altro, riservisti, accademici, artisti…
Si grida anche allo scandalo per una leadership corrotta e criminale il cui unico interesse non è più quello del Paese ma solo ed unicamente il proprio.
E infatti puntualmente la domenica, come un braccio di ferro dopo le manifestazioni della sera prima, il Primo Ministro dice che i manifestanti sono anarchici e pericolosi per l’esistenza del Paese, lascia che il figlio li compari ai nazisti e in Parlamento, sotto l’ombra della legge sulla rivoluzione legale, vengono discusse e approvate leggi ad personam. E senza colpo ferire vengono lesi i diritti più basilari dei cittadini e delle cittadine.
Per la prima volta il sentimento antigovernativo è trasversale ed è alimentato da un senso di vergogna anche sul piano internazionale: da Roma a Berlino da Parigi a Londra fino a Washington e a Dubai, senza saltare l’Australia: la diaspora vince la ritrosia a schierarsi in polemica con il governo israeliano ed esprime il proprio disappunto. Non tutti, ma certo secondo un copione inedito. Quando un ministro si permette di affermare che il popolo palestinese non esiste, o di ignorare i confini di Paesi vicini con cui si è faticosamente raggiunto un accordo di pace, ci si chiede quanto vicino sia il baratro. Sembra quasi che si sia posto come obiettivo l’isolamento internazionale di Israele. Forse anche nei colpi assestati all’hi-tech israeliano c’è una sorta di rivalsa nei confronti di un pubblico ritenuto di sinistra, non sufficientemente nazionalista. Abrogare la legge sul ritiro da Gaza – per ora solo dal Nord della Samaria, ma l’intenzione è chiara- è una dichiarazione di metodo prima ancora che di principio: usare la forza, non la diplomazia. E il tutto sempre discusso in fretta e furia, con maratone notturne che arrivano fino alle cinque del mattino, quasi a suggellare il carattere surrettizio del pasticciaccio che si sta consumando.
Le crepe si iniziano a formare nella maggioranza, l’attuale governo non prende seriamente in considerazione la forza coesiva del Paese e il miracolo di far marciare insieme religiosi e laici, persone di destra e di sinistra arabi e israeliani, sotto una stessa unica bandiera. Sul palco di Haifa si sono alternati in una sola sera scrittori della levatura di Nevo, politici come Lieberman, ex delfino di Netanyahu, e il Premio Nobel Aaron Cechanover. E a Tel Aviv il celebre scrittore David Grossman afferma che “Abbiamo qui nelle strade rappresentanti di molti gruppi che di solito non escono per protestare, anche molte persone di destra. Questo gruppo immensamente diversificato è pronto a mettere da parte le sue differenze e a combattere questa lotta esistenziale… Nel suo 75° anno, Israele lotta in modo decisivo per la sua democrazia e per il suo stato di diritto”.
Si giunge così al sondaggio per il quale perfino il mondo religioso nazionalista (datì leumì) è interessato ad arrivare a un compromesso nella riforma: il 78% sostiene la fine della crisi con i negoziati e l’11% degli intervistati si oppone alla riforma. E alla fine arriva l’autogol: il licenziamento, poi ritrattato, del Ministro della Sicurezza Gallant solo perché colpevole di aver proposto di fermare temporaneamente la riforma. Le proteste sono andate molto oltre le prospettive fino a culminare con lo sciopero generale dei sindacati che hanno paralizzato il Paese, per fortuna per un solo giorno. È stato il Jerusalem Post a suscitare scalpore con la notizia che il Primo Ministro si era precedentemente accordato con i sindacati affinché iniziassero uno sciopero generale per porre fine alle proteste e per avere una scusa per fermare la riforma, che evidentemente era sfuggita di mano al Nostro. È il 27 marzo quando Netanyahu annuncia appunto la sospensione della riforma. Si “va al riposo” si direbbe in termini calcistici: per rifiatare durante Pesach e fino a tutto Yom HaAtzmaut (giorno dell’indipendenza).
Il Presidente Herzog riprova la mediazione, avrà successo questa volta? Alcuni hanno deciso di smettere di scendere in piazza per dare una speranza all’iniziativa del Presidente, almeno fino alla Festa dell’Indipendenza. Ma la maggior parte prosegue: le proteste continuano e il sabato sera le città seguitano a popolarsi di manifestanti e di bandiere, di canzoni e di comizi in una atmosfera di festa e di speranza di chi condivide lo stesso ideale sionista su cui è nato lo Stato di Israele, ideale ormai lontano dall’attuale leadership.
I sondaggi danno Netanyahu in picchiata, abbondantemente scavalcato da Gantz. E il Primo Ministro decide di disertare il più grande appuntamento con la diaspora americana: non parteciperà all’assemblea generale della Jewish Federation of North America. Il Jerusalem Post parla di divorzio (voluto da Netanyahu) dall’ebraismo americano.
E poi c’è il Giorno del Ricordo, quando non ci sono le parole adatte e il silenzio è l’espressione migliore, là dove le parole non possono dire l’indicibile. E proprio in questo giorno sono arrivate le immagini che nessuno avrebbe voluto vedere ma che temevamo avremmo visto: le violente polemiche sono entrate fin dentro i cimiteri nel giorno più triste di Israele, Yom HaZikaron (giorno del ricordo), con le famiglie dei soldati caduti a spintonarsi fra le tombe, schierandosi chi a favore e chi contro la riforma. Il Ministro Ben Gvir non ha rinunciato a presenziare e tanto meno a parlare nonostante fosse stato chiaramente chiesto ai politici di astenersi da qualsiasi discorso. Ora con Yom HaAtzmaut alle spalle si affilano nuovamente le armi da entrambe le parti, tutti pronti a ricominciare a combattere a favore o contro la Riforma, mentre a latere si vota sulla modifica della Legge del Ritorno e si tenta di far approvare il bilancio (il limite ultimo del 31 maggio è perentorio, perché senza un bilancio approvato si va nuovamente alle urne).
E il Likud e la haTzionut haDatit hanno dato una grande prova di forza e di disponibilità economica portando duecentomila persone in piazza a Gerusalemme, anche se i haredim, occorre sottolinearlo, hanno scelto di non partecipare. Ma, purtroppo, accanto a questa dimostrazione di forza, rimarrà impresso l’atto perpetrato dai manifestanti di calpestare le immagini dei giudici della Corte Suprema. Un atto che credevamo dovessimo veder compiere solo ai nostri peggiori nemici. E questa volta i manifestanti non vengono chiamati anarchici, ma hanno ricevuto i complimenti della leadership.
Tutto questo non può non creare il vuoto intorno a Netanyahu, facendolo probabilmente implodere. Potrei sbagliare, ma spero di no.