di Andrea De Benedetti
LILIANA è un documentario di Ruggero Gabbai, girato prima degli avvenimenti del 7 ottobre ’23, che ripercorre la testimonianza della senatrice a vita Liliana Segre sulla sua deportazione e sulla sua vita successiva.
Come si sopravvive al Male assoluto? Per quasi cinquant’anni, dal 1945 alla fine del secolo scorso, Liliana Segre ha silenziosamente convissuto con questa domanda, la cui unica risposta poteva essere – e per lei è stata – la vita stessa. La memoria dell’Indicibile – lo testimoniò con brutale chiarezza Primo Levi – sfida ostinatamente il linguaggio a trovare le parole adatte per restituirla con nitidezza e, anche quando riesce a stanarle, c’è il rischio che persino la più lucida delle testimonianze, se ripetuta tante volte, suoni come una liturgia vuota. Un rischio che Liliana Segre certo non corre, tale è la potenza di un messaggio – il suo – privo di qualunque stucchevolezza retorica e ridotto a una severa essenzialità da decenni di faticoso esercizio. Esisteva tuttavia il pericolo che un docufilm sulla vita dell’ex deportata potesse essere accolto come la replica non necessaria di una storia già sentita e non come un ulteriore tassello della sua testimonianza: Liliana che a otto anni scopre, incredula, di non poter più frequentare la sua scuola per via delle leggi razziali; che a tredici viene arrestata insieme al padre e deportata ad Auschwitz-Birkenau dove lui verrà ucciso e lei miracolosamente sopravvivrà; che durante la marcia della morte verso la Germania sceglie di non sparare all’aguzzino a cui era caduta in terra la pistola per non ripagare l’odio con la moneta bucata della vendetta; che a sessanta abbondanti, dopo aver superato una terribile depressione, decide che è giunto il momento di tirare fuori tutto quello che si era tenuta dentro e di consacrare il resto della sua vita al dovere della testimonianza.
Da quando, una trentina di anni fa, Liliana Segre decise di squarciare pubblicamente il velo con cui aveva protetto sé stessa e i suoi figli dal proprio passato, questo racconto lo abbiamo ascoltato decine di volte (soprattutto dopo l’inattesa nomina a senatrice a vita decretata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel 2018), senza peraltro smettere di emozionarci e di indignarci. Con il documentario di Ruggero Gabbai, che alterna frammenti di un dialogo registrato nel 1995 da Liliana Picciotto a cura del CDEC con un’intervista realizzata nell’estate del 2023 (a pochi mesi dagli attentati terroristici del 7 ottobre che ne avrebbero probabilmente alterato il tono e il senso), la storia si arricchisce tuttavia di passaggi, protagonisti e sfumature che non conoscevamo. In particolare, il lavoro di Gabbai, già autore di altri importanti lungometraggi dedicati alla Shoah (da Memoria del 1997 a Kinderblock, l’ultimo inganno del 2020), va oltre le vicende della persecuzione e della deportazione, allargando lo sguardo ai decenni seguenti e alle figure familiari – marito e tre figli, di cui due maschi – che hanno fatto da sfondo alla vita «dopo». Del marito Liliana Segre racconta senza reticenze la tardiva adesione al Movimento sociale – lui, conservatore, ma antifascista quasi della prima ora – con tanto di candidatura alle Elezioni politiche del 1979, che tanti hanno provato a sfruttare, da destra e da sinistra, per screditare lei. Ancora più interessanti, perché si avventurano nel territorio pressoché inesplorato del rapporto tra la generazione degli ex deportati e quella successiva, le testimonianze di Alberto, Luciano e Federica (e dei nipoti Davide e Filippo), che hanno accettato di raccontare, con pudore e tenerezza, che cosa abbia significato, per loro, essere figli di Liliana, tra depressione, deficit affettivi (come quando Federica confessa la sua iniziale gelosia per la dimensione pubblica della madre, che sottrae tempo alla loro intimità), non detti abnormi e reciproci sensi di colpa.
Alla fine, l’unico aspetto che rimane forse un po’ nell’ombra è proprio il settennato come Senatrice a vita, durante il quale Liliana Segre ha dovuto fare i conti con l’ingombro della fama, la recrudescenza dell’odio antisemita e l’ipocrisia di una politica che la ossequia pubblicamente e in privato – specie a destra – mal tollera certe sue posizioni troppo antifasciste. Che forse sono troppo antifasciste anche per alcuni suoi correligionari, ma questa è un’altra storia.