L’INSICUREZZA RITROVATA
di Moshe B.
Sabato 24 agosto, durante la funzione di Shachrit (preghiera del mattino), tre uomini hanno tentato di incendiare la piccola sinagoga di La-Grande-Motte, località balneare vicino Montpellier, nel sud della Francia. All’interno dell’edificio c’erano meno di dieci persone, uscite fortunatamente illese. Secondo l’agenzia Ansa, citando fonti del governo francese, gli atti antisemiti nella sola Francia sono triplicati dall’inizio dell’anno con 887 eventi registrati nel primo semestre, nello stesso periodo del 2023 erano stati 304. A New York invece, nel 2023 gli ebrei sono stati il bersaglio del 44% dei crimini d’odio, secondo Haaretz. Aumenti di episodi antisemiti dal 7 ottobre in poi sono stati registrati anche in Germania con oltre l’80% (Politico), e del 589% nel Regno Unito (Guardian).
Se c’è una parola che può definire questo secolo dal punto di vista ebraico, non esiste probabilmente parola più idonea di “sicurezza”.
Talvolta nell’entrare in una sinagoga o anche semplicemente in un supermercato kasher l’impressione è quella di varcare le porte di un carcere di massima sorveglianza: telecamere a circuito chiuso, militari con mitra a tracolla, guardie giurate, addetti interni alla sicurezza muniti di giubbotti antiproiettile e walkie talkie, porte blindate e innumerevoli controlli di ogni tipo soprattutto per chi proviene da altre comunità. Forse non esistono ancora studi specifici su quali siano gli effetti psicologici per un bambino/a ebreo/a nel vivere questa anomala vita ebraica costantemente sotto-sorveglianza, come se l’essere ebrei/e non possa prescindere al giorno d’oggi dall’avere una qualche protezione armata nei paraggi.
Non è ovviamente che l’antisemitismo sia una paranoia sciocca e infondata degli ebrei contemporanei, così come il terrorismo ad esso correlato, l’attentato alla Grande-Motte è solo uno tra gli innumerevoli tristi esempi, proteggere i luoghi ebraici è certamente una necessità inevitabile.
Di pari passo sembra però che dal 7 ottobre stiamo precipitando sempre più in una sorta di re-ghettizzazione, in cui il ghetto non è più soltanto un luogo circondato da cancelli e ponti levatoi come fu quello veneziano del XVI secolo, il quale appunto è quasi comparabile alle sinagoghe video-sorvegliate odierne, ma un ghetto che con le sue barriere è un luogo perlopiù impalpabile e mentale. Un ghetto che talvolta si può manifestare semplicemente nel nascondere la propria identità ebraica in particolari contesti che potrebbero mettere a rischio la nostra sensibilità o incolumità, ma altre volte questo ghetto mentale ci spinge ad evitare sempre più i contatti con l’esterno, a temere l’altro e le sue opinioni, le informazioni dei media, in una sorta di sindrome d’accerchiamento. Questa auto-reclusione non porterà probabilmente a estinguere la diaspora ebraica e a un trasferimento di massa in Israele, anzi al contrario, secondo il Times of Israel, dal 7 ottobre 12.300 israeliani sono emigrati all’estero senza fare ritorno – un aumento del 285% rispetto all’anno precedente –, ma forse determinerà ancora di più le scelte quotidiane ed esistenziali degli ebrei europei, osservanti o meno, a cominciare da scegliere se accettare o negare completamente la propria eredità ebraica. Nel farlo, le domande potrebbero essere: è opportuno vivere in quartieri ebraici più racchiusi e sorvegliati? Puntare la scelta su un partner ebreo che comprenderà maggiormente il nostro sentire? Educare i propri figli ebraicamente? Come affrontare situazioni in cui i propri amici non ebrei discutono di Israele? O anche, come rapportarsi con le istituzioni comunitarie quando esse difendono le politiche e le retoriche israeliane a spada tratta?
Il sogno di Theodor Herzl, il ritorno a Sion che avrebbe dovuto definire conclusa la “questione ebraica”, offrendo finalmente sicurezza e quiete agli ebrei di tutto il mondo al di là della loro estrazione sociale e religiosa, si è trasformato in un certo senso in un incubo: Israele è diventata una fragile fortezza di carta circondata da nemici che ne auspicano la distruzione, con un governo che è quanto di più illiberale, demagogico, e teocratico rispetto a quei valori liberali e laici in cui Herzl cresciuto nella Vienna ottocentesca credeva. L’occupazione e il controllo su milioni di palestinesi fanno sì che continuare a parlare di Israele come “unica democrazia del Medio Oriente” è un witz che può al massimo fare presa nelle camere dell’eco dei gruppi social che ripetono allo sfinimento i dogmi dell’hasbarà. La distruzione di Gaza ha portato ulteriormente lo stato di Israele ad essere percepito agli occhi del mondo come uno stato paria che suscita odio e avversione, il quale tutt’al più è lodato da governi e partiti di estrema destra che non celano neanche troppo il proprio antisemitismo interno. La diaspora, come già scritto sopra, è diventata un luogo insicuro dove gli ebrei vivono costantemente sotto sorveglianza e con il continuo timore che qualunque evento capiterà in Medio Oriente si riverserà di riflesso sulle proprie vite con conseguenze disastrose.
Molti ebrei europei, e così leader comunitari e persino intellettuali di sinistra, continuano comunque a illudersi e voler credere in un’idea di Israele ormai tramontata che non esiste più, se non da decenni in maniera definitiva dallo scorso anno, in cui “arabi ed ebrei hanno eguali diritti e vivono in pace e armonia nelle stesse città” e nella quale gli arabi “sono presenti in ogni ambito della società civile in posizioni rappresentative, e in politica con i propri partiti eletti in parlamento”. Chiaro che in questa narrazione viene sempre omessa e non considerata la situazione di segregazione e prevaricazione in cui vivono i palestinesi in Cisgiordania.
Davvero si può dunque così pensare che anche i cittadini arabi di Israele, per quanto possano essere integrati e occupare ruoli ambiti all’interno della società israeliana, continueranno a nutrire un grande amore per Israele? Di fronte agli abusi e torture gratuite del centro di detenzione di Sde Teiman? Alle espropriazioni di terra e violenze da parte dei coloni sempre più impunite in West Bank? Al razzismo imperante dei ministri del governo Netanyahu? Quando a Gaza da ottobre ogni giorno anziani, donne e bambini, giornalisti e medici, vengono deliberatamente umiliati, vessati, uccisi, distrutte le loro abitazioni senza nessuna apparente giustificazione, per mano di quello che qualcuno continua ancora a sostenere essere “l’esercito più morale del mondo” – ma possono esistere poi “eserciti morali”? Una realtà reperibile da fonti presenti non su Al Jazeera o su qualche sito InfoPal, ma ben leggibili su giornali israeliani, su mass media super partes o, ancora più importante, dalle stesse testimonianze sempre più numerose dei riservisti che tornano da Gaza. Uno tra questi, Yuval Green, intervistato dalla Stampa, racconta “a Gaza, ti guardi a destra, a sinistra e vedi solo distruzione, tutto è in rovina, non ci sono strade, tanti ospedali e università sono stati distrutti, non ci sono parole per spiegare la quantità di danni e questo non si può giustificare”.
La sensazione è che le conseguenze di questa guerra e di tutto ciò che sta accadendo adesso a Gaza siano ancora in gran parte sconosciute ai più e al mondo, quando queste diverranno più chiare sarà ormai troppo tardi, anche e soprattutto per gli stessi israeliani che vivono tuttora con il dolore e con il trauma degli eccidi del 7 ottobre. Orrore che, è utile ricordarlo e ripeterlo senza requie, non potrà mai essere riscattato con altrettanto sangue e orrore e con la completa distruzione della Striscia di Gaza – qui almeno il 50% degli edifici, secondo Mediapart, è stato raso al suolo parlando apertamente di “urbicidio” -.
Nel 1975 Herbert Pagani scrisse “Arringa per la mia terra”, concludendo cartesianamente in riferimento alla condizione ebraica e israeliana moderna con “mi difendo, dunque sono”. Qualcuno continua a citare questo componimento come se l’Israele del 2024 fosse lo stesso del 1975, quello in cui, altra frase abusata, Golda Meir affermava “non vi perdoneremo mai per averci costretto ad uccidere i vostri figli”. Oggi sembra piuttosto che per l’Israele di Netanyahu il concetto di “difesa”, già di per sé ambivalente, sia sostituito dall’idea che per vivere/sopravvivere sia necessario distruggere, terrorizzare, e punire indiscriminatamente.
Poco importa che questo modus operandi metta anche a serio rischio le vite dei cittadini israeliani e degli ebrei in qualunque parte del mondo essi si trovino.