di Sandro Ventura
Caro Bruno, te ne sei andato da questo mondo a 93 anni, il 21 agosto 2023, in modo discreto, quasi in punta di piedi, e forse con quell’ironia e quella leggerezza che ti hanno sempre distinto. Immagino che tu abbia accolto sorella morte con un sorriso, magari un po’ dispiaciuto, ma senza troppi drammi.
La tua lunga vita non è stata facile, soprattutto nell’infanzia: la persecuzione nazifascista, la perdita del padre, la durezza della ripresa nel dopoguerra, la morte di Adriano Olivetti. Ma anche tante soddisfazioni: la famiglia, Matilde, i figli, i libri, l’insegnamento, il lavoro con Nevé Shalom/Wahat as-Salam/Oasi di Pace, l’impegno nel dialogo interreligioso, i tanti riconoscimenti, l’amicizia di tanti, e soprattutto la fedeltà ai tuoi valori ed ai tuoi ideali. La tua anima ebraica, laica, libertaria, socialista e sottilmente anarchica, ti ha portato a fare tante esperienze forti e condivise con tante persone di valore.
Non ricordo bene la prima volta che ci siamo incontrati, forse in uno dei colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli, o forse al SAE (Segretariato per le Attività Ecumeniche) alla Mendola o a Paderno del Grappa? Certamente in quei posti ci siamo ritrovati tante volte ed abbiamo stretto una fraterna amicizia. Eravamo fra i pochi ebrei che hanno scelto il dialogo con i diversi da noi, col mondo circostante, minoranza nella minoranza. Come me, hai sentito forte la responsabilità e l’importanza della relazione, e quando possibile dell’amicizia, con il mondo delle altre religioni, e soprattutto abbiamo voluto stare in mezzo ai cristiani, per conoscere e farci conoscere e far capire le tante sfumature della diversità ebraica. La nostra presenza credo che un po’ sia servita a far superare i pregiudizi e far comprendere che l’ebraismo non è un’astrazione monolitica, ma è costituito da persone in carne ed ossa, con i nostri pregi ed i nostri difetti, e che siamo molto interessati ai destini del mondo, e non solo alle nostre beghe particolari. Abbiamo sempre sentita forte l’esigenza di portare il nostro ebraismo fuori “dalle mura del ghetto”, perché, come mi hai detto una volta, “non possiamo starcela sempre a raccontare fra noi”. Ed anche questo impegno, forse, può aiutare a combattere l’antisemitismo, oggi in forte crescita.
E pure il nostro modo di sentirci ebrei è stato molto simile: grande importanza ed attenzione agli aspetti culturali, artistici ed antropologici dell’ebraismo, realtà complessa e difficilmente definibile, che certamente non si esaurisce con il supino adeguamento ad una “halachà” medievale. Forse sono più di te sensibile al richiamo di una prassi religiosa, e questo mi ha spinto verso il movimento dell’ebraismo progressivo. Ricordo quando ci siamo trovati insieme alla sepoltura del nostro amico Martin Cunz. Ce lo ha portato via un tumore cerebrale quando ancora era giovane. Eravamo a Loco, paesino sperduto nel Canton Ticino, dove negli ultimi anni della sua vita è stato pastore protestante. Martin si è fatto seppellire nel cimitero nel giardino della sua chiesetta. È stato un personaggio speciale, e grazie anche a lui nel 1980 hanno preso l’avvio i colloqui di Camaldoli. Io allora ho voluto onorarlo recitando il Kaddish in aramaico ed in ebraico nella cantillazione fiorentina, sicuro che gli avrebbe fatto piacere. Tu allora lo hai letto in italiano, in modo che si potesse far comprendere ai presenti come quel grande inno di lode all’Eterno Dio Unico che recitiamo nel lutto, non intende mortificare nel dolore, ma permette di accettare la morte, e superare il confine fra mondo dei vivi e mondo dei morti. Certamente il prossimo Kaddish lo dirò per te.
Anche sul piano politico siamo stati in forte sintonia: tutto è politica, anche i nostri comportamenti privati. La tua forte individualità non è mai stata individualismo, ma si è sempre messa al servizio di una comunità quanto più ampia ed inclusiva possibile. Questa tua sensibilità ti ha portato a lavorare con e per Adriano Olivetti, una delle migliori personalità italiane del dopoguerra, che ha cercato di realizzare una straordinaria sintesi fra utopia e realtà, in una Ivrea immaginata e realizzata a misura d’uomo, per la promozione e la crescita dell’intera società italiana. Purtroppo l’improvvisa e prematura morte di Olivetti ha interrotto bruscamente questa esperienza, che ha incontrato ostacoli e resistenze da parte di tante forze politiche che non hanno saputo e voluto comprendere la portata di quella proposta innovativa e trasformativa che tu hai raccontato così bene nel tuo libro intitolato “Adriano Olivetti. Un Umanesimo dei Tempi Moderni” (Hoepli). Questa tua passione politica, Bruno, ti ha portato anche a schierarti dalla parte degli studenti ticinesi nel 1968 e a ritrovarti, come sempre, in una situazione di minoranza.
Anche l’amore per lo Stato d’Israele ci ha accomunato, e tu per molti anni sei stato il rappresentante ufficiale di Nevé Shalom/Wahat as-Salam/Oasi di Pace, il villaggio vicino a Latrun dove israeliani ebrei, palestinesi, cristiani e mussulmani insieme cercano di dare vita ad una società nuova ed egualitaria, dove si può convivere e prosperare, e magari volersi bene, superando le differenti appartenenze. Anche questa esperienza, come quella d’Ivrea, mette insieme utopia e realtà, come del resto il movimento sionista originario. Come affermava Theodor Herzl: “se lo vorrete non sarà una leggenda”. E così, sulla spinta dell’utopia, sono nati Israele, i kibbutzim, i moshavim, e Nevé Shalom/Wahat as-Salam. E domani, forse, la pace. Insieme, tu ed io, siamo rimasti molto turbati e preoccupati, se non angosciati, per la crescita, anche in Israele, di quei partiti che, spinti dall’odio, dall’ignoranza, dall’oscurantismo e dalla cecità, hanno preso il potere. Soprattutto, ricordo, eri come me terrorizzato dall’idea paranoica ed anacronistica di quelle forze che vogliono ricostruire il tempio di Gerusalemme distrutto ormai da quasi duemila anni. Un’idea ridicola e pazzesca di un impossibile ritorno al passato che, fra l’altro, nega la presenza delle moschee di Omar e di Al-Aqsa. Un modo per incrementare l’odio del mondo contro gli ebrei, e mette ancor più a rischio l’esistenza d’Israele. Come se non bastasse il conflitto armato in atto.
Abbiamo in comune anche dei figli musicisti: i tuoi Emanuele e Lia, con la chitarra e la viola, ed il mio Jacob, col violino. Con Lia, per varie contingenze, abbiamo potuto diventare amici. Purtroppo non conosco personalmente Vera ed Emanuele, e non potrò neppure incontrarli a Milano il 16 settembre, il giorno fissato per la tua commemorazione.
Durante e dopo l’epidemia da Covid non hai potuto partecipare agli eventi di dialogo a Camaldoli e ad Assisi, e quindi non ho più avuto il piacere di abbracciarti. Ci siamo sentiti tante volte per telefono, e spesso ho cercato di tenerti al corrente di quello che accadeva. Mi sei mancato, Bruno, e mi manchi. Ti abbraccio qui ed ora sulle pagine di Ha Keillah. Che il tuo ricordo possa essere una benedizione per tutti quelli che ti hanno conosciuto.