di Alessandro Treves

Si è fatto un gran parlare in queste settimane dell’accordo di cooperazione scientifica ed industriale fra Italia e Israele, oggetto di prese di posizione spesso appassionate e talvolta radicali, in un senso o nell’altro, vittime di una polarizzazione binaria che ottunde le capacità di analisi anche di finissimi pensatori. Dopo più di dieci anni, spero di non violare alcuna norma formale o etica se condivido un paio di osservazioni, nate dal mio coinvolgimento nel meccanismo di implementazione dell’accordo, come addetto scientifico all’Ambasciata d’Italia a Tel Aviv nel biennio 2011-13. Può darsi che alcune cose siano nel frattempo cambiate.

Una prima osservazione riguarda il boicottaggio, ovvero l’interruzione della cooperazione, in ambito strettamente scientifico. Credo che il più delle volte esso risulti controproducente, anche se valutato con gli occhiali, in genere appannati, di chi lo promuove; personalmente mi sono dato da fare – tranne nei due anni in cui ero in servizio col Ministero degli Affari Esteri – per aggirare i boicottaggi informali, le restrizioni o le sanzioni internazionali che colpiscono a casaccio colleghi che operano in realtà già difficili di per sé, come l’Iran, la Palestina o la Repubblica Democratica Popolare di Corea. Detto questo, il boicottaggio scientifico (sia pure indicato con formula edulcorata) è stato politica ufficiale italiana, con (quasi) tutta l’Unione Europea, anche nei confronti di una specifica università israeliana: Ariel, ”l’università dei coloni”. Una politica ribadita con decisione in una riunione, dodici anni fa, cui erano stati convocati tutti gli addetti scientifici dei paesi europei, che dovevano aiutarne l’attuazione. Non solo. Questo boicottaggio selettivo era, almeno in quegli anni, in piena sintonia con le sette “vere” università israeliane, le quali stavano cercando di respingere l’imposizione del governo Netanyahu di ammettere nel loro novero Ariel, che loro vedevano, oltre alle considerazioni etiche e politiche, al di sotto degli standard richiesti per fregiarsi del titolo di università. Il governo israeliano reagì con rabbia, sospendendo, in un contro-boicottaggio, l’accordo di partecipazione israeliana ai programmi scientifici dell’Unione Europea. Un contro-boicottaggio che danneggiava solamente i ricercatori israeliani, i quali erano soliti ottenere molti più finanziamenti dall’Unione Europea di quanto Israele contribuisse come paese associato; e che infatti venne ritirato poco dopo, nascondendolo dietro uno di quei giri di parole con cui vengono concluse le iniziative demenziali. Nel frattempo, il ministro Gideon Sa’ar, allora fedele alleato di Netanyahu, aggirava il boicottaggio “interno” di Ariel da parte delle sue sette sorelle o sorellastre maggiori, decretando l’istituzione di uno speciale “comitato delle università di Giudea e Samaria” di cui Ariel era unico membro, e procedendo alla graduale decapitazione del comitato delle vere università, che non aveva voluto accettare Ariel.

Corollario alla prima osservazione: ciò che rendeva particolarmente ipocrita la reazione del governo Netanyahu alla proibizione di partecipare con finanziamenti europei all’attività scientifica di Ariel – e di altre istituzioni ed imprese operanti nei territori occupati – era che tale politica, che l’Unione Europea aveva faticosamente ribadito superando le resistenze di Orbán e soci, coincideva esattamente con quella adottata per anni dagli Stati Uniti. Ed accettata senza alcuna protesta dai vari governi israeliani succedutisi negli anni. In sostanza, il governo israeliano, che non si sognava di contrastare apertamente su questo punto il potente protettore americano, aveva provato a scardinare la linea comune dei più malleabili europei, facendo leva sui governi amici di estrema destra; e non tanto per procurare qualche finanziamento agli scarsi ricercatori di Ariel, quanto per far piegare la testa al suo reale avversario, la collettività degli scienziati delle vere università israeliane.

Seconda osservazione: l’accordo di cooperazione scientifica e industriale fra Italia e Israele, che ai miei tempi comportava un investimento di alcuni milioni l’anno per parte, riguardava per un decimo ambiti strettamente scientifici, e per il resto ricerca e sviluppo sostanzialmente industriali. Fra questi, tecnologie a doppio uso o ad uso militare. Naturalmente la ricerca scientifica può essere valutata con criteri sempre opinabili, ma più o meno largamente condivisi, mentre per la ricerca industriale la valutazione di merito è molto più arbitraria, ed influenzata da orientamenti sociali, politici e strategici. L’uso della ricerca scientifica come “foglia di fico” per nobilitare sostanziosi investimenti di natura prettamente industriale non è ovviamente una caratteristica precipua del MAECI e del suo accordo con Israele: è una pratica diffusa in tutto il mondo e che gradualmente sta corrodendo ovunque la purezza, reale o idealizzata, della scienza come esercizio intellettuale. Quello che era più specifico dell’accordo, almeno anni fa, era l’attitudine di alcuni israeliani a trattare la controparte italiana, nel comparto industriale, come una congrega di simpatici cialtroni. Attitudine che emergeva qua e là in battutine in ebraico, pronunciate nella sicurezza che gli italiani non le capissero, e nella determinazione a imporre le proprie scelte sui finanziamenti, in teoria condivise pariteticamente con gli italiani. Fra scienziati, invece, l’appartenenza nazionale ha un peso molto minore, e in diminuzione col diminuire della percentuale di coloro che hanno maturato solamente esperienze nazionali.

Un anno, ad esempio, gli israeliani, infastiditi dalla necessità di valutare molteplici progetti congiunti con gli italiani, proposero di finanziare un unico progetto di collaborazione, nella componentistica per l’aeronautica. Mi colpì riscontrare come la collaborazione prevista nel progetto apparisse minima e probabilmente fittizia, ma soprattutto come il costo previsto ammontasse, per ciascuna controparte, a quasi 5 volte il valore dell’intero accordo di collaborazione. Gli israeliani risposero che la segretaria si era dimenticata di tradurre il budget da shekel a Euro, ché appunto, a quel tempo, un Euro valeva circa 5 shekel. In quell’occasione gli italiani si dimostrarono simpatici ma non cialtroni, e il progetto venne cassato.

Nell’attuale momento di grande polarizzazione emotiva è facile perdere di vista la complessità delle due società in conflitto, molto diverse fra loro ma anche molto diversificate al proprio interno; una diversificazione soffocata dalla tragedia in corso. Un incoraggiamento mirato e selettivo ai progetti di collaborazione scientifica, che già tendono ad auto-organizzarsi spontaneamente nella maggior parte dei casi (non in tutti) ma che possono beneficiare grandemente del supporto europeo ed italiano, può dare un contributo indiretto anche a chi, in Israele ed in Palestina, cerca coraggiosamente di contrastare la narrativa bellicosa di coloro i quali mandano i propri connazionali ad uccidere e a morire.    

Trieste e Tel Aviv

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