di Bianca Ambrosio

La notte in cui è stato reso noto che altri sei ostaggi erano stati uccisi, ho sognato Rachel Goldberg Polin, madre di uno di loro, Hersh. Nel sogno andavo a trovarla insieme alla mia amica Giorgia. La notizia è arrivata durante un seminario di formazione yoga dove avevo poca connessione internet, ottimo pretesto per ritagliarmi qualche giorno di pausa dal mondo digitale. Qua e là davo comunque un occhio ai messaggi e quando ho visto che un’amica mi aveva inviato un cuore spezzato, il pensiero è caduto subito lì. La testa ha intuito, anche se il cuore si ostinava a rimanere incredulo. Le ho scritto: «Cosa è successo?» ma già sapevo.

Tra gli ospiti al seminario c’era un’omeopata inglese esperta in traumi transgenerazionali che coi giorni ha dimostrato una certa simpatia nei miei confronti anche se io continuavo a tentennare nel rivelarle la mia identità. Avevo una certa riluttanza ad “aprire il file”, raccontare, contestualizzare.

Quella sera, quando ho ricevuto il messaggio, dopo aver messo a letto mia figlia, ho saltato la meditazione serale e sono rimasta attaccata al telefono almeno un’ora, in preda alla tristezza, all’ansia di capire qualcosa in più. Di fronte allo sguardo interrogativo dei miei compagni e compagne di corso, stupiti che passassi tutto quel tempo davanti allo schermo, non ho avuto il coraggio di dire la verità. Ho detto loro che era morta la nonna di un amico, una piccola bugia bianca. Di nuovo, non avevo voglia, o forse forza, di “aprire il file”. In realtà, i miei occhi umidi e stralunati piangevano Hersh, la cui famiglia in questi mesi ha dato esempio di forza, speranza e umanità dimostrando il feroce potenziale dell’amore di un genitore. E insieme a Hersh piangevo gli altri ostaggi uccisi e tutti quanti i morti. È stato un lutto silenzioso, privato, autocensurato. Non mi sono concessa – e di questi tempi raramente mi concedo – il privilegio di parlare del mio dolore, un po’ perché so che sono esaurite le riserve di empatia nei nostri confronti e un po’ perché io stessa in qualche modo non so più come gestirlo, questo dolore. Arriva a ondate, si delegittima da solo (che diritto ho io di stare male e avere paura?) poi si fa sordo e riemerge spietato quando arriva la notizia della morte di una persona di cui conoscevo la storia. Ma chi meglio di noi sa che dietro a ogni numero c’è una storia e che se solo le conoscessimo meglio queste storie, piangeremmo una per una tutte le migliaia di vite spezzate?

Nel sogno in cui rendevo omaggio a Rachel, ricordo di aver provato disagio di fronte a una donna, a una madre, che per undici mesi ha raccolto forze sovrumane per riportare a casa sua figlio, per infondergli forza, coraggio e amore oltre le barriere fisiche e spaziali e a cui è stata restituita una salma. Hersh quella forza, quel coraggio e quell’amore deve in qualche modo averli percepiti, perché nonostante tutto, nonostante il braccio mutilato, la fame e i lunghi mesi di prigionia in un tunnel soffocante, era riuscito a sopravvivere. Poi, complici uomini piccoli piccoli che di speranza e umanità non sanno nulla, è stato ucciso. È stato ucciso, ma poteva essere salvato. Così come sono state uccise ma potevano essere salvate migliaia di altre persone. E la verità è che se non iniziamo a prendere atto che siamo tutti ostaggi di questi uomini minuscoli che sul nostro dolore costruiscono le loro carriere, non ne usciremo salvi nemmeno noi, vivendo sempre più “sotto coperta”, cadendo nella trappola di non riuscire a guardare oltre il nostro trauma.

È di nuovo il sette ottobre, è passato un anno, Gaza è un inferno di distruzione, fame e miseria, incombe la minaccia di una guerra regionale mentre la speranza che gli ostaggi tornino a casa vivi è sempre più lieve. Come ero a disagio in sogno davanti a Rachel, lo sono nella vita di tutti i giorni davanti a questa guerra che non finisce più e per cui ho esaurito le parole. Mi rimane un’unica affermazione che credo sia imperativo ripetere all’infinito: BASTA. Basta con le “soluzioni” militari che soffocano qualsiasi speranza di una prospettiva altra. Basta primi giorni di scuola senza una scuola a cui tornare. Basta alle persone che non hanno più una casa, che non hanno da mangiare. Basta alla retorica vuota di chi usa i nostri morti per giustificare altre stragi. Basta vivere nella paura e nell’ansia per un futuro che di giorno in giorno si prospetta più tetro. Basta a questo abisso morale che macchia la storia del nostro popolo. Basta alla sofferenza di altre donne che, come Rachel, hanno perso per sempre un figlio, o una sorella, un padre, un fratello. In memoria e benedizione di tutte le persone che in questo anno hanno perso la vita, basta alla guerra. Perché, come diceva Haim Peri, un altro ostaggio rapito il 7 ottobre, abbandonato dal governo Netanyahu e ucciso da Hamas, “meglio le pene della pace che le agonie della guerra”.

20/09/2024

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