Per un ebraismo antico e nuovo
Intervista di Giorgio Berruto
a Beatrice Benadì
Beatrice Benadì, venti anni, frequenta il secondo anno di Global Law and Transnational Legal Studies del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. Non serve essere fini indagatori per capire che entusiasmo e voglia di fare ne ha da vendere. Dall’estate scorsa presiede la nuova realtà ebraica torinese Chadash Kedem, una comunità inclusiva di area conservative (per il momento) non riconosciuta dall’Unione delle comunità ebraiche italiane.
Il tuo percorso ebraico parte allo stesso tempo da vicino e da lontano…
Il mio percorso ebraico come quello di molti è un po’ travagliato [ride]. Io sono figlia di un bellissimo matrimonio misto in cui mia mamma è di religione cattolica e mio papà è ebreo. I miei genitori hanno concordato su una crescita orientata all’ebraismo fin dalla nascita per me e mio fratello, tant’è vero che fin da quando ho coscienza ho frequentato la sinagoga e celebrato le feste. Soprattutto mio nonno, che è stata una figura fondamentale nella mia vita, ci ha dato una base conoscitiva, culturale e religiosa notevole. Quando lui è mancato nel 2015 sia io sia mio fratello abbiamo deciso di convertirci perché nonostante dentro di noi ci sentissimo già ebrei volevamo essere anche riconosciuti come tali. Abbiamo iniziato così un percorso di conversione con rav Cipriani, che all’epoca era stabile a Marsiglia. Abbiamo studiato all’incirca due anni e mezzo, è seguito l’esame conclusivo a Marsiglia e dopo altri sette mesi abbiamo fatto bar e bat mitzvà sempre a Marsiglia nel 2019.
Ci racconti qualcosa di più sulla tua relazione tanto speciale con il nonno?
Potrei parlarne per ore e ore. Io sono la prima nipote femmina, quindi anche dal punto di vista di trasmissione dell’ebraismo sento una bella responsabilità di cui sono felice. Fin da quando ero piccola mio nonno ha costruito con me un rapporto solido e speciale. Prima delle feste mi parlava di tante cose nonostante quando venivano letti testi in ebraico io non capissi ovviamente nulla. La sua presenza è stata fondamentale per la mia crescita personale e religiosa. Quello che poi a lui interessava molto era raccontare la storia della famiglia. Passando tanto tempo insieme si è creato un rapporto incredibile, e quando è mancato per me è stato un lutto devastante. Avevo tredici anni e non lo realizzavo, non me ne rendevo conto: non lo concepivo ed ero molto arrabbiata perché si era verificato qualcosa di impossibile. Pensavo che mio nonno fosse immortale, per quanto possa sembrare assurdo, ma nella mia testa lui non poteva venire a mancare, era presente sempre e doveva essere presente sempre nella mia vita. Ho avuto una reazione abbastanza infantile, faticando ad accettarlo. Poco tempo dopo ho cominciato il percorso di conversione per poter realizzare pienamente quel processo di trasmissione che volevo portare avanti. Se non fosse per mio nonno non avrei sicuramente l’animo pieno di attaccamento alle radici, alle tradizioni, alla famiglia, all’ebraismo.
In tempi più recenti sei stata promotrice di una nuova comunità ebraica per Torino, Chadash Kedem. Da dove è nata l’idea?
Da un mio malessere. Un malessere nato in particolare nel periodo del Covid perché mi sono resa conto che convertirsi, come tutti sanno, è un processo molto impegnativo e molto gratificante; però nei mesi dell’isolamento mi sono anche resa conto che non era possibile frequentare luoghi come la sinagoga e che il mio tipo di conversione, essendo riconosciuto dal movimento massortì e da quello reform, non era riconosciuto dall’ortodossia italiana. A Torino non potevo essere riconosciuta come ebrea e così mi sono sentita di nuovo un’ebrea di serie b. Ho semplicemente condiviso questo mio malessere con persone che conoscevo, arrivando alla conclusione di non essere l’unica e che al contrario esistevano tante storie diverse con punti in comune. Non erano poche. Allo stesso tempo durante un viaggio fatto nel 2019 a New York, poco prima del Covid, avevo visto per la prima volta un ebraismo diverso rispetto a quello torinese che prima avevo sempre vissuto, un ebraismo che ho sentito a me molto più vicino. Allora ho pensato con rav Cipriani a come unire queste storie diverse a Torino. Con lui abbiamo tirato giù qualche idea, poi le idee sono diventate un documento, infine uno statuto con una serie di principi, anche tramite il dialogo con persone competenti.
E poi?
Il primo evento è stato a marzo 2022, una semplice lezione sul significato di Pesach che ha visto la partecipazione di centodieci persone. Persone davvero di qualsiasi tipo: iscritti a comunità ortodosse, ebrei reform e massortì, non ebrei, persone di religione cattolica, atei e così via. Molti non conoscevano rav Cipriani e sono rimasti entusiasti. Alla conclusione alcuni sono venuti da me e mi hanno detto: “Ok, e quindi adesso che si fa?”. Io non avevo detto di voler fare qualcosa per tastare prima il terreno, cioè vedere quali reazioni potesse far scaturire una lezione di rav Cipriani. Molte persone mi hanno chiesto di creare un gruppo, altre di fondare una vera e propria comunità. Francamente non pensavo che tanti potessero apprezzare a tal punto e nello stesso tempo capire quello che io stessa stavo pensando dopo una semplice presentazione di un’ora e mezza. Da quel momento ci ho lavorato senza interruzione per un mese e mezzo arrivando a fine maggio con una proposta concreta e un nome, Chadash Kedem, che potesse dare un significato a quella che era stata fino a gennaio una semplice idea. A questo punto ho presentato il progetto. Ero veramente molto agitata perché il mio timore più grande era che l’idea piacesse ma il fatto che fosse proposta da una ventenne potesse spaventare, dare poco senso di sicurezza. Il progetto è piaciuto tantissimo e molte persone hanno manifestato il loro interesse fin dall’inizio, perciò siamo andati avanti con le pratiche indispensabili perché ci si potesse concretamente iscrivere. A luglio abbiamo fatto la prima assemblea e nominato il consiglio direttivo che, a sua volta, ha nominato il presidente. Non davo per scontato di essere nominata ma si è pensato di puntare soprattutto sul fatto che io abbia vent’anni e molta voglia di fare. Mi rendo conto però di non avere l’autorevolezza e l’esperienza di una persona più adulta. Ho apprezzato veramente tanto che le persone abbiano creduto tanto in me. Così, in ogni caso, è nato Chadash Kedem.
Che cosa sta dietro la scelta del nome?
Il nome a ben vedere è sbagliato perché composto da due aggettivi, nuovo e antico. Perché dunque questo e non un altro? La nostra comunità si avvicina all’orientamento massortì, che viene definito “l’ebraismo tradizionale per ebrei moderni”. Volevamo due termini che riassumessero questa frase. Kedem implica l’antichità – rispetto e studio di Torà e halachà, la legge ebraica – e Chadash la novità, cioè uno sguardo aperto alla modernità, accogliente, inclusivo, progressista.
Quali sono le prime attività che sono state organizzate?
Siamo nati ufficialmente a inizio giugno e con l’assemblea di luglio abbiamo posto le basi per le attività dell’anno ebraico da settembre a giugno. Con rav Cipriani abbiamo stabilito una serie di incontri e deciso di iniziare con Rosh Hashanà, organizzata al centro culturale l’ARTeficIO. Ciascuno dei partecipanti ha portato qualcosa in un clima amichevole e informale, due giorni di full immersion che hanno compreso anche Tashlich sulla Dora [il rito tradizionale compiuto il pomeriggio della festa presso un corso d’acqua]. Il primo evento culturale è stato la presentazione del libro I Netanyahu di Joshua Cohen alla libreria Claudiana con Claudio Vercelli. Il 25 e 26 novembre abbiamo festeggiato Shabbat con lo stesso modello scelto per Rosh Hashanà: il Kiddush il venerdì sera, la tefillà il sabato mattina, cena e pranzo insieme e sabato pomeriggio una lezione tenuta da rav Cipriani. Da gennaio, naturalmente, sono previste nuove attività.
Rav Cipriani, che i lettori di HaKeillah conoscono per i suoi interventi, spesso sottolinea la scelta di un ebraismo senza mura. Che cosa significa per voi la parola inclusione?
Rav Cipriani descrive così il suo movimento, Etz Chaim, seguito anche da molti nostri iscritti. Per noi inclusione, come abbiamo scritto nelle prime righe dello statuto, significa accogliere storie diverse. Ci sono per esempio le storie di chi ha nonni ebrei che nel tentativo di salvarsi durante la guerra si sono convertiti, interrompendo così la trasmissione ma non il sentirsi ebrei all’interno del proprio cuore. C’è il caso molto comune di matrimoni misti, o di interruzioni causate dalle scelte di nostri antenati o da forza maggiore. Le diverse storie tuttavia hanno in comune la volontà di riannodare il filo delle proprie origini, di capire la propria appartenenza e quello che si prova dentro di sé. Per noi inclusione vuole dire accogliere tutte queste storie, cercare di coltivarle, evitare che vengano perse perché sono un bagaglio che ci portiamo dietro che arricchisce sia i singoli sia la comunità. Inclusione significa trovarsi in una stanza per una lezione o una festività senza fare distinzioni tra ebrei di serie a e di serie b.
È vero che a interessarsi di ebraismi alternativi a quello delle comunità dell’Ucei in Italia sono quasi sempre persone che vivono o hanno vissuto personalmente problemi di rifiuto? Per esempio chi non ha visto accettare i propri figli in comunità nonostante l’educazione ebraica ricevuta in famiglia e a scuola perché la madre non è ebrea?
Sì. Io per esempio mi sono sentita a lungo un’ebrea di serie b perché non ho fatto una conversione ortodossa. Questo comporta una difficoltà nel sentirmi sullo stesso piano di altri perché so che non da tutti sono considerata ebrea. Però come ti dicevo sono in molti a trovarsi oggi in una situazione analoga. Lo scopo della nostra comunità ebraica è di unire queste storie.
A Torino esiste un gruppo giovanile, il GET, che da anni adotta una linea inclusiva: sono benvenuti tutti i giovani legati in qualche misura alla comunità ebraica, e non solo quelli iscritti e con il bar o bat mitzvà alle spalle. Inoltre recentemente c’è un’attenzione particolare verso argomenti importanti come l’identità di genere e i diritti. Tu partecipi alle iniziative del gruppo? Che cosa ne pensi?
Conosco bene il GET, ne faccio parte da due anni. Ho partecipato ad alcuni eventi e attività e penso sia un ottimo gruppo, tra l’altro molto frequentato e attivo. Tutto ciò che fa è secondo me di grande interesse sia da un punto di vista religioso sia da un punto di vista culturale e anche per l’intento di creare network. Penso che debba continuare a proporre attività di aggregazione sociale e di studio, per esempio le lezioni con rav Finzi, tanto più considerando che, a mia conoscenza, quello di Torino e quello di Firenze sono gli unici gruppi di giovani ebrei in Italia.
Più in generale com’è la relazione, se c’è, con la comunità ebraica di Torino? Avete discusso con il consiglio della comunità e con il nuovo rabbino Ariel Finzi di possibili progetti comuni?
La relazione con la comunità ebraica di Torino è stata fin dall’inizio molto onesta e limpida, nel senso che pochi giorni dopo l’arrivo di rav Finzi sono andata a presentarmi come presidente di Chadash Kedem. Nostro intento stabilito fin dall’inizio e ribadito dall’assemblea è proporre un rapporto di totale rispetto reciproco e piena disponibilità a collaborare. Ci rendiamo conto che spesso nei contesti ebraici la coesistenza di diversi approcci può dare luogo a difficoltà, ma allo stesso tempo la nostra volontà è di creare un clima il più possibile armonioso. È quindi nelle nostre intenzioni mantenere viva la relazione con la comunità ortodossa, la pluralità di voci in qualsiasi ambito caratterizza il mondo da sempre. Creare un bel rapporto è importante.
State pensando anche a una pubblicazione periodica, un sito o una presenza sui social?
Siamo già presenti da settembre sui social Instagram e Facebook. Abbiamo ritenuto non necessario per il momento un sito. Ma da inizio novembre abbiamo aperto una redazione i cui contenuti verranno diffusi con pubblicazione periodica di interventi su vari argomenti tra cui ebraismo e inclusione, cultura ebraica, turismo, innovazione e università in Israele.