Intervista di Bruna Laudi

Da un messaggio irritato ad Ha Keillah, per un articolo ritenuto poco opportuno e pertinente, emergono immagini lontane, legate all’adolescenza, al primo giorno di scuola nel ginnasio del prestigioso liceo genovese, l’unico volto noto tra tanti sconosciuti: Noemi è un po’ più grande di me, è nella stessa sezione, forse mi dà qualche informazione utile alla sopravvivenza…

Così la nostra chiacchierata inizia partendo dal ricordo del liceo e degli insegnanti e ci accorgiamo subito di avere ricordi ed emozioni completamente diversi: un’ulteriore conferma di come i rapporti tra le persone siano condizionati da moltissimi fattori e come le sensibilità di ciascuno siano determinanti per la loro costruzione. La condivisione dei ricordi facilita la conversazione e Noemi, che nel frattempo è diventata un’artista israeliana raffinata ed affermata, mi racconta la sua esperienza.

Dopo il liceo classico, come sono proseguiti i tuoi studi?
Mi sono iscritta a Genova alla facoltà di lettere ma, dopo il primo anno, i miei genitori hanno deciso che mi dovessi iscrivere a Milano, all’Università Statale, probabilmente perché io avessi più opportunità di frequentare il mondo ebraico giovanile. Andai ospite nella casa di Dina Lampronti, nonna di Bruno e Leo Contini. In effetti quel periodo fu per me il risveglio alla vita, cominciai a conoscere il mondo comunitario ebraico, frequentai il Club 45, entrai nella FGEI (Federazione Giovanile Ebraica d’Italia), feci parte del Consiglio e partecipai ad alcune riunioni di redazione del giornale Ha Tikwa.

Non partecipai direttamente al Movimento studentesco ma, sicuramente, sentivo l’aria del tempo. Avrei dovuto fare una tesi, con l’aiuto di Luisella Mortara, sulle Haggadot miniate: in particolare, ricercare e pubblicare una Haggadah manoscritta ancora inedita, presso la Biblioteca Palatina di Parma. Ma, nello stesso periodo, seguivo le assemblee dell’occupazione della Statale e mi sono chiesta che senso avesse chiudermi in una biblioteca a studiare l’arte medievale. Allora mi sembrava di essere anacronistica e ho deciso di cambiare tutto: ho scelto di scrivere una tesi in geografia. C’era un professore molto in gamba e aperto che si chiamava Lucio Gambi e abbiamo concordato una tesi sullo sviluppo delle città in Israele, sulla politica di distribuzione della popolazione sul territorio: erano gli anni ‘68 – ‘69, anni in cui ancora si parlava di urbanizzazione solo all’interno dello stato. Sono venuta in Israele, ho raccolto materiale e ho scritto la tesi, aiutata nelle traduzioni da Samuele Navarro che aveva studiato in Israele da bambino. Dopo la laurea sono venuta in Israele con un programma per laureati del WUJS (World Union of Jewish Students), mi sono inserita nel Dipartimento di geografia della Hebrew University, dove ho completato il Master, e lì ho cominciato a lavorare.

Come sei passata dalla geografia all’arte?
In seguito, sono andata a lavorare all’Istituto Centrale di Statistica, nel dipartimento di geografia, poiché non ero interessata ad approfondire gli studi di statistica. Mi fece il colloquio per l’assunzione Sergio Della Pergola! Cominciai quindi a occuparmi di cartografia e principalmente disegnavo carte geografiche, riportavo dati su di esse e sono diventata una grafica: ho cominciato a curare pubblicazioni di depliant prodotti dall’Istituto. Ho anche collaborato, come aiuto – ricercatrice, con Sergio Minerbi z”l, ex ambasciatore di Israele e persona di altissimo livello, per la stesura del suo libro su Raffaele Cantoni: ho organizzato e guidato per lui, mi sembra nel 1976, un viaggio di professori per l’associazione Amici dell’Università di Gerusalemme e ho intervistato famiglie di olim (immigrati in Israele) italiani,  in varie parti del paese, per la ricerca di Sergio Della Pergola e Amedeo Tagliacozzo “Gli Italiani in Israele“.

All’Ufficio centrale di statistica ho conosciuto mio marito, Joel Blankett, che faceva traduzioni dall’ebraico all’inglese: praticamente è poliglotta, essendo figlio di genitori finlandesi che parlavano svedese, inoltre conosce il tedesco e l’yiddish. È appassionato di fotografia.

Ho lavorato all’Istituto fino alla nascita del terzo figlio, poi mi sono licenziata.

Però avevo sempre avuto la passione per il disegno, non ho potuto studiare al Liceo artistico perché allora si riteneva che fosse “mal frequentato”, ma ho sempre disegnato e anche durante il soggiorno a Milano, seppur poco, ho continuato a dipingere.

Spiegami qualcosa di più sulle tue fonti di ispirazione: ho visto alcune opere sul tuo sito Internet ed emerge la passione per la grafica ma anche una certa tragicità.
Per natura sono piuttosto pessimista e mi colpisce la crudeltà in tutte le sue forme: mi influenza ciò che sento o vedo e si trasmette nelle mie opere. Per esempio, gli acquerelli dei polli morti, che si possono vedere in Internet, sono molto vecchi e corrispondono al periodo in cui hanno ucciso Rabin e rappresentano lo sconcerto e la cupezza del periodo.

Ho anche disegnato molti nudi dal vero: ospitavo settimanalmente delle pittrici nel mio studio e facevo venire modelli o modelle: sono di quel periodo grandi tele con disegni in bianco e nero che rappresentavano la guerra o profughi in fuga. Feci poi una mostra dal titolo “Sinopie” ed era una sequenza di nudi su fogli 50×70 che rappresentavano una figura in movimento, una specie di danza.

Dopo la morte di mio padre nel ’92, ho iniziato a frequentare assiduamente il Tempio italiano di Gerusalemme e sono rimasta molto colpita dal Levitico, dalla crudezza con cui venivano descritti i sacrifici e ho sentito la necessità di narrare, attraverso l’opera d’arte, l’angoscia di quelle descrizioni. In quel periodo ho letto anche la poesia di Yehuda Amichai “Il vero eroe”: nel dramma di Isacco il vero eroe è il montone, che viene sacrificato al suo posto. Da queste esperienze emotive nasce una serie di disegni di capre, ritratte dal vero, con le pupille rettangolari ed espressioni molto comunicative. Ne ho fatto una mostra in cui ho anche esposto disegni di altari sacrificali.

Sei poi passata alle rappresentazioni vegetali, a cosa è dovuto il cambiamento? Quali sono le tecniche che preferisci?
Forse alla nascita dei nipoti, ho cambiato punto di vista e mi sono soffermata su nuovi soggetti.
Io sto molto bene se ho la matita in mano, per cui la maggior parte delle mie opere è a matita ma dopo aver seguito un corso ho imparato a fare incisioni e da anni vado settimanalmente in un laboratorio che mi offre la possibilità di fare da sola tutte le operazioni tecniche per la creazione di un’incisione.

E il colore?
Non l’ho abbandonato: ho dipinto a olio la Ketubah (contratto matrimoniale) di mio figlio Nathan che si è sposato da poco ed è coloratissima, poi ho fatto un pannello lungo 7 metri “La casa delle ombre” che raffigura la casa di Genova in cui sono nata, impressa nei miei ricordi. È la mia opera più triste… Ultimamente sono affascinata dalle textures, letteralmente una “texture” è definita come la qualità visibile e tattile della superficie di un oggetto, che sia liscio, rugoso, morbido o duro, ed è essenzialmente un effetto visivo che aggiunge ricchezza e dimensione a una qualunque composizione. Mi sono concentrata sulle venature delle foglie, ho fatto dei progetti sugli zucchini e sui pampini dell’uva, sui viticci. Sulle alture del Golan ho trovato tanti fichi d’India con le foglie seccate che hanno perso tutta la lamina, per cui sono rimaste delle reti di nervature, reticolati sovrapposti che danno un senso di profondità e da cui traspare la luce: intravedo un microcosmo fatto di città, piazze, strade e mi chiedo come rendere tutto ciò che vedo col disegno, in una rappresentazione bidimensionale.

Adesso veniamo alla tua vita in Israele: a inizio estate mi hai contattata per contestare un articolo uscito su Ha Keillah e mi hai parlato di Corrado Israel De Benedetti, che allora era ancora vivo e direi molto vigile. Potresti condividere con noi qualche ricordo?
Eravamo lontani cugini perché sua nonna Emilia era sorella di mio nonno.
La prima cosa che mi viene in mente pensando a lui è il rammarico per non essere riuscita ad andare al suo funerale né a ricordarlo il trentesimo giorno dalla sua morte, perché era il giorno del matrimonio di mio figlio Nathan.

Posso dire che era una grande persona, di statura morale superiore alla media: teneva moltissimo alla famiglia e ti faceva sentire importante anche se era lui veramente molto importante! Ci telefonava spesso per avere nostre notizie: adesso mi manca tanto, vorrei potergli raccontare del matrimonio. Quando su Ha Keillah è uscito l’articolo sugli ebrei di Helsinki mi ha subito telefonato per sollecitare un mio intervento, era molto dispiaciuto sapendo che mio marito è finlandese.

Dalle tue amicizie e, in particolare da quella con Corrado DB, intuisco che tu non sei allineata con le scelte politiche del governo israeliano. Qual è la tua posizione e quale è quella della comunità italiana a Gerusalemme?
In generale, seppur con qualche eccezione, la comunità italiana di Gerusalemme non è di sinistra ed è allineata con le politiche in atto: certamente non si può generalizzare ma mi sento di affermare che questa è la situazione. Ormai da anni frequento preferibilmente persone con cui condivido idee e visione, perché non mi sento di affrontare con emotività discussioni molto faticose: purtroppo si sono anche perse delle amicizie. Questo porta a vivere un senso di estraneità, a chiedersi se questo è veramente il mio posto: ho scelto di venire a vivere in Israele tanti anni fa, spinta da ideali che allora avevano un senso. Adesso mi capita di non riuscire a identificarmi con le persone che mi circondano. Ti racconto un fatto che mi è successo recentemente e che spiega molto bene questa mia sensazione. Sono andata nello studio di una estetista e ho notato che aveva un labbro visibilmente gonfio; preoccupata le ho chiesto cosa le fosse successo e lei mi ha risposto che aveva subito un piccolo intervento estetico eseguito da un bravissimo chirurgo: “Si chiama Said, … però è cristiano!” ha tenuto a rassicurarmi, quasi che il solo sospetto che potesse essere musulmano dovesse creare sconcerto!

I vostri figli condividono le vostre posizioni critiche? Hanno fatto il servizio militare?
Direi che tutti e tre hanno una visione simile alla nostra: hanno fatto il servizio militare e l’ultimo ha deciso di farlo anche per solidarietà con i suoi coetanei, però è riuscito a ricoprire ruoli che non comportassero operazioni militari nei territori occupati.

Purtroppo, i ragazzi sono molto condizionati e alcuni considerano addirittura un privilegio essere ammessi nelle cosiddette unità speciali: fanno un duro addestramento nella speranza di essere arruolati. Ci sono anche obiettori di coscienza ma generalmente si è radicata la cultura della guerra che qui si chiama “legittima difesa”.

Da quel che mi dici capisco che i media in generale sostengono queste posizioni. Quali sono invece le fonti di informazione “alternative”?
Io leggo Haaretz, che è considerato un giornale di sinistra, anche se ci sono nostri amici che lo definiscono un giornale liberale, e poi c’è la stampa estera oltre ad altre pubblicazioni.

Per noi è molto importante la tua testimonianza: nell’ambiente ebraico italiano si vive una situazione piuttosto difficile. Se un ebreo che vive qui scrive delle analisi critiche su quello che accade in Israele viene immediatamente accusato di una sorta di viltà: “come ti permetti di fare delle critiche stando comodo, nella tua casa, lontano dal pericolo dei missili e degli attentati?” Per questo sono fondamentali testimonianze come la tua, perché la tua critica è legittimata dai rischi che correte tu e la tua famiglia.

La morte di Israel De Benedetti, oltre al dolore di chi l’ha conosciuto, è stata anche una grave perdita per il nostro giornale, perché è venuta a mancare una figura di riferimento la cui autorevolezza era indiscussa e che però era una voce dissonante dalle sirene della propaganda.

 

Noemi Tedeschi Blankett è nata a Genova, e si è trasferita in Israele nel 1970. Attualmente vive e lavora a Gerusalemme.
Si è laureata in Lettere presso l’Università Statale di Milano e ha proseguito gli studi presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, completando il Master
All’Università Ebraica ha anche studiato arte ebraica.
Tedeschi Blankett ha studiato privatamente con alcuni dei pittori più importanti di Gerusalemme, tra cui Tova Berlinsky, Joseph Hirsh, Marek Yanai e Sasha Okun.
Ha imparato le tecniche di incisione al Jerusalem Print Workshop, dove continua a lavorare come artista indipendente.
Tedeschi Blankett è stata tra i membri fondatori della Red House Gallery di Tel Aviv, è membro del consiglio dell’Italian Jewish Museum di Gerusalemme ed è membro dell’Associazione dei Pittori e Scultori di Gerusalemme.
Ha fatto mostre personali e ha partecipato a collettive, tra cui a St.Peterburg.
Le sue opere sono nelle collezioni del Museo d’Israele a Gerusalemme e del Museo Janco Dada a Ein Hod, e in collezioni private.

 

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