“NON FINIRÀ FINCHÉ NON CI PARLIAMO”
di Francesco Moises Bassano
Questa frase viene ripetuta numerose volte nell’ultimo libro di Colum McCann “Apeirogon” (Feltrinelli 2022), e in più occasioni nelle ultime settimane pensando a Israele è rimbombata nella mia testa.
A scrivere Apeirogon non è in questo caso né un israeliano e né un arabo, colui che racconta è uno scrittore irlandese, il quale cerca di creare una narrazione parallela, o meglio molteplici narrazioni le quali finiscono per convergere sempre sul solito punto: il dramma del conflitto israelo-palestinese, al di là di quale sia la nazionalità di chi lo vive e l’angolazione da cui si sceglie di osservarlo.
Non credo che il libro di McCann necessiti di una vera recensione – per una recensione rimando al commento di Daniela Gross su Doppiozero, a Cyril Aslanov su Mosaico e a Beppe Segre su queste pagine -. Apeirogon è un libro che si può leggere anche in modo discontinuo, magari partendo dalla fine o da un punto casuale. La narrazione non è lineare, la sua struttura mi ha ricordato un po’ Rayuela di Julio Cortázar o le opere di Georges Perec. Ciò che racconta, soprattutto il modo in cui viene raccontato, non è sempre pienamente condivisibile, su molti aspetti sembra mancare un reale equilibrio o una pretesa obiettività e su questo potremmo aprire altre innumerevoli parentesi, ma sia che si finisca per amarlo o odiarlo è un libro che spinge il lettore a interromperlo più volte per documentarsi sui fatti narrati, per prendere appunti, per riflettere e provare ad osservare il tutto a 360°.
La frase con la quale ho aperto il discorso, per esempio, è una frase breve, apparentemente semplice, ma che porta con sé proprio come l’apeirogon un numero infinito di lati, e quindi di idee, strade non ancora intraprese e possibilità.
Che cos’è innanzitutto che non finirà? La spirale di violenza, questa nello stato attuale delle cose, difficilmente terminerà.
Seguendo il racconto di McCann anche il lancio di una pietra può essere un inizio diretto ad una lunga detenzione nelle carceri israeliane, a sua volta questa in generale potrà formare nuovi militanti di gruppi jihadisti, altri terroristi, e quindi nuovi attentati e altre vittime innocenti. L’abbattimento delle case dei famigliari dei terroristi creerà ugualmente altri emuli dei terroristi, spesso famigliari anch’essi, e poi altre vittime, ogni vittima provocherà la nascita di nuovo odio e altri desideri di vendetta. Tutta la situazione che si è venuta a creare in crescendo in Cisgiordania porterà ad ulteriore separazione, odio, e violenza tra israeliani e palestinesi. La radicalizzazione degli schieramenti, come hanno testimoniato gli ultimi anni, ha riguardato sia la politica israeliana che quella palestinese, con l’enorme rischio – come avvenuto del resto nella primavera del 2021 – di interessare anche la popolazione arabo-israeliana in genere più immune dal nazionalismo palestinese e dal radicalismo anti-israeliano.
La pronta risposta militare dei governi israeliani al lancio di razzi qassam da parte di Hamas sulle città israeliane, ha forse nel breve periodo bloccato nuovi attacchi missilistici, ma oltre a provocare inevitabilmente altre vittime e riaccendere da ogni dove l’odio nei confronti di Israele, non ha mai risolto il problema nelle sue fondamenta. Anche grazie ai flussi di denaro provenienti dai paesi del Golfo Persico dopo pochi anni Hamas è sempre in grado di riarmarsi e tutto ricomincia così da capo. Per quanto forse scontato, il mero uso delle armi (o anche della repressione) dall’inizio dell’umanità ad oggi non ha mai risolto alcunché, tranne che esacerbare i conflitti e prolungarli all’infinito. Specialmente quando il conflitto più che tra due eserciti è tra due popoli in balia delle scelte bieche di coloro che dovrebbero governarli, riconciliarli, e garantire così la loro reale sicurezza.
Su cosa dovrebbe vertere allora il dialogo, chi è che dovrebbe iniziarlo?
Molti israeliani ritengono da tempo che il dialogo con i palestinesi non sia praticabile in alcun modo, questo preconcetto non deriva soltanto dalla retorica della propaganda di destra, ma può essere motivato anche dalla disillusione dovuta ad anni di intifada, azioni terroristiche, e occasioni mancate o fermamente rifiutate dalla controparte. Hamas è un’organizzazione terroristica, l’Autorità Nazionale Palestinese un organismo moribondo, corrotto ed inaffidabile. Il concetto ripetuto, decisamente vantaggioso alle forze politiche di destra, è che i palestinesi conoscano solo “il linguaggio dell’odio, della violenza e del fanatismo islamico”. “Come parlare con persone che festeggiano per le strade con dolcetti alla notizia di un attentato? Con padri che insegnano ai propri figli a imbracciare un mitra, che si fanno scudo di loro? Con i discendenti del Gran Muftì di Gerusalemme alleato di Adolf Hitler?” Ed ancora, “la cultura della morte e del martirio contro la cultura della vita”, “uno stato palestinese diventerebbe la fucina e il laboratorio per la distruzione di Israele”, “ai palestinesi la pace non interessa”. I più radicali si spingono poi a chiamare in causa la storia biblica, o ad affermare che i palestinesi siano un’invenzione contemporanea, come se sostenere ciò servisse a cambiare la realtà dei fatti, la contingenza delle cose, e quindi a far di colpo cambiare idea o credenze religiose a una decina di milioni di persone che tali si considerano e ritengono quei luoghi anche casa propria.
Per gran parte dei palestinesi gli israeliani sono ugualmente un unicum senza troppe distinzioni, “sono nemici, usurpatori, colonialisti, coloro che vivono in case costruite su terre rubate ai nostri antenati, privano la popolazione dell’acqua e estirpano i nostri ulivi”, “sono la sola causa della sofferenza quotidiana in Cisgiordania, dell’umiliazione, del degrado, della povertà, della creazione di muri di separazione e machsomim”. Un gruppo hip hop palestinese di Amman, i Torabyeh, in una canzone dal titolo Gorbah cantano: “come posso stare io calmo quando tutti gli israeliani sono soldati riservisti?”. Non manca poi l’uso di concetti più aberranti spesso basati su cliché antisemiti o comunque su un razzismo essenzialista “gli israeliani, quindi gli ebrei, si sono trasformati da vittime in carnefici”, “i crimini degli israeliani restano sempre impuniti perché protetti dalle ricche lobby d’oltreoceano”, “lo scopo di Israele è lo sterminio del popolo palestinese”.
E poi la memoria, “l’eccesso di memoria” come lo chiama Abraham Yehoshua, il passato che inquina il presente per entrambi. Gerusalemme che per alcuni è la “capitale indivisibile di Israele” e per altri soltanto al-Quds, gli esodi, le guerre, la Nakba, le chiavi di case non più esistenti dove si brama un giorno di tornare… quanta memoria può ancora produrre il conflitto, e quanto questa contaminerà il futuro?
Che fare allora? McCann racconta che i due protagonisti di Apeirogon, Rami e Bassam, un padre israeliano e un padre palestinese, s’incontrano nel segno di un dolore condiviso, entrambi hanno perso le loro figlie a causa del conflitto. Entrambi riescono con un grande sforzo interiore, un grande jihad per restare in tema, a vedere nell’altro non più un nemico, ma un essere umano, il quale porta esattamente lo stesso fardello, il quale soffre nel modo medesimo. “È un disastro scoprire l’umanità del tuo nemico, perché a quel punto non è più tuo nemico, non può proprio esserlo” afferma Bassam nel discorso che ripete ad ogni incontro pubblico in cui è invitato.
Susan Abulhawa, celebre scrittrice palestinese, tra le principali sostenitrici del BDS (Boycott, Divestment and Sanctions nei confronti di Israele), ha descritto Apeirogon su Al-Jazeera come “una narrazione coloniale riduzionista di empatia e dialogo, e che in nessun modo sapere che anche gli israeliani hanno una famiglia mi costringerà mai ad accettare il mio esilio forzato”. Come Abulhawa, i sostenitori del nazionalismo palestinese con costanza invitano da lontano i palestinesi all’intifada, alla ribellione violenta, fagocitandoli all’idea che “morire da martiri” sia un atto di resistenza, spingendoli verso una battaglia suicida contro uno stato, un esercito più forte che non potranno mai in alcun modo sconfiggere. Continuamente rivangano la storia, ricordano loro che sono profughi, discendenti di profughi, e che quindi dovranno riprendere possesso di ciò che oltre settant’anni fa era esclusivamente loro. Anche da sinistra viene dimenticato che qualunque nazionalismo è in sé nocivo ed esclusivista, si fonda sempre sul predominio di una maggioranza a discapito di un’altra o di altre minoranze, dentro di sé porta spesso i germi del fascismo.
Immaginiamo due che continuamente litigano. Chi guarda da fuori non cerca di porsi come mediatore per dividere i due, ma invita l’uno a picchiare l’altro, a fargli male, o a ricordargli come tutto è iniziato, cosa l’altro gli ha fatto la volta precedente. Potremmo considerarlo un gesto d’amore verso qualcuno al quale vogliamo bene?
Questo tipo di atteggiamento, unito alla propaganda di entrambe le fazioni e ai soliti armamentari ideologici usati per raccontare il conflitto, sono tra gli elementi più dannosi del conflitto stesso. Ma soprattutto, influenzano dall’estero il conflitto più di quanto si creda. Questa condotta non porta da nessuna parte, non aiuta alcuna delle due popolazioni, e non offre appunto nessuna conciliazione e soluzione all’orizzonte. Esclusa quella di ricordare costantemente quanto l’altro sia malvagio, quanto l’altro sia un nemico da decenni, da sconfiggere, da negare e cancellare dal presente e dalla storia.
Apeirogon può essere un invito ad andare oltre i ripetitivi mantra della propaganda da social networks, oltre le abituali narrazioni, cercare di decostruire quelle in uso, guardare l’oggetto da più angolazioni, ed elaborare così nuove categorie interpretative. In Apeirogon, Bassam racconta di come sia riuscito a convincere il proprio figlio Aarab a non lanciare pietre ai soldati israeliani. Sarebbe stato un inizio, gli fa capire, che poi non avrebbe più avuto una fine, e a parte alla prigione o alla morte, ad altre morti, non avrebbe condotto a nient’altro.
Questo sì è davvero un gesto d’amore verso qualcosa a cui realmente si tiene.
In calce:
Mentre in Israele si contano le vittime di nuovi attentati, in risposta agli attacchi terroristici il premier Benjamin Netanyahu ha approvato all’unanimità 9 nuovi insediamenti in Cisgiordania.
Intanto Itamar Ben Gvir, ministro della sicurezza nazionale, ha proposto tra le priorità del nuovo governo, una legge sulla pena di morte per i terroristi, nuove misure più drastiche per i famigliari dei terroristi, rendere più dura la situazione nelle carceri per i detenuti, e facilitare le richieste di porto d’armi da parte dei civili.
Ad oggi Apereigon non è stato ancora pubblicato in Israele. L’editore israeliano di McCann, Am Oved, avrebbe rifiutato la pubblicazione perché “i lettori israeliani non sarebbero pronti per un libro simile”. Qualche giorno fa è circolata su Facebook una raccolta di fondi organizzata da una piccola casa editrice israeliana per finanziarne la pubblicazione.
Colum McCann, “Apeirogon”, Feltrinelli 2022, pagg.528, € 20,90