di Giorgio Berruto
Chi dice che a rimanere, dopo la morte, sono soltanto nomi nudi, non dice il vero. A volte rimangono segni nelle persone che restano, eredità tanto invisibili quanto inscalfibili. Eredità manifeste in quello di cui si è stati artefici con gli altri e per gli altri, e allo stesso tempo eredità nelle generazioni di figli e nipoti, quelle toledot che nella Torà segnano l’avvicendarsi degli uomini all’interno di un’unica catena al posto del computo asettico degli anni. Ci sono persone che lasciano eredità grandi. Rossella era una di queste persone.
Di Rossella sarebbe facile evocare gli sguardi, il sorriso, la positività e l’accoglienza. Chi l’ha conosciuta ricorderà a lungo la sua solarità, la generosità e la dolcezza. Ma questo è appunto qualcosa insieme ovvio e privato, che è giusto lasciare all’intimità di ciascuno. Meglio forse dare qui spazio ad alcuni frammenti per chi scrive irrinunciabili. Sono poche schegge personali che rimangono.
L’associazione Italia Israele, prima occasione di incontro. La passeggiata dopo il tempio il sabato mattina fino alla casa in collina, via san Pio V, il Valentino, il ponte sul Po, scale, l’ospedale San Vito e ancora su seguendo la strada a tornanti. La prima volta e poi la seconda e tante altre ancora. Il giardino magnifico, la città sotto i piedi, le montagne di fronte. Anche l’invasione delle cimici qualche estate fa, moleste divoratrici del verde che la rendevano furibonda, così diceva, ma con un tono di voce che tutto era fuorché davvero furibondo. I romanzi di narratori israeliani letti, che dico, penetrati pagina dopo pagina anche a costo di deformarne il dorso, come a suggerne il succo. E naturalmente le discussioni su quei libri. In una occasione il bonario rimprovero per una recensione forse troppo entusiasta a un libro che non era piaciuto. Una volta, durante una serata in comunità in ricordo di Amos Oz, l’annuire profondo alle parole di uno dei relatori sul premio Nobel più volte atteso e ingiustamente mai concesso. La memorabile scena ripetuta innumerevoli volte in cui, come in un gioco, cercava di fermare Chicco dopo la prima spolverata di sale sulla challà al momento dell’hamotzì e poi scuoteva via il sale in eccesso. Lo zenzero. Appesi a decine in casa, i quadri della nonna Eleonora e i disegni del padre Giorgio, assassinati ad Auschwitz quando lei aveva tre anni. E la bella mostra che nel 2017 presso la Biblioteca nazionale universitaria coronava il sogno di vederli offerti alla cittadinanza. Il libro della mamma Giuliana, che dalla deportazione era tornata. I balli a Simchat Torà. I racconti delle vacanze pieni di episodi divertenti senza bisogno di forzature, come quello dei corridoi infiniti negli hotel di Las Vegas o del baratro del Grand Canyon. Il suo ottimo ebraico con marcato accento torinese. I fiori meravigliosi che, non si stancava di ripeterlo, le piacevano tanto.