di Rimmon Lavi

Il nefasto 7 Ottobre scorso e questi 11 mesi di guerra sanguinosa e senza risultati decisivi richiedono una spiegazione che non può aspettare una commissione d’inchiesta che, se mai sarà nominata, risponderà dopo anni e solo a domande parziali.  Come si può spiegare un tale collasso generale dell’esercito israeliano, della politica interna, delle relazioni internazionali d’Israele assieme al rigurgito antisemita sotto le vesti di antisionismo?

La destra messianica che sostiene Netanyahu, pur attaccandolo demagogicamente, prepara il terreno per gettare tutta la responsabilità sui gradi militari supremi: essi in realtà l’avevano assunta subito dopo il pogrom di Hamas, non previsto e non bloccato sulla frontiera meridionale, ma non intendevano restare da soli, di fronte a scelte politiche di trasferire le unità di difesa in Cisgiordania, infiammata dai coloni bellicosi. Netanyahu rimanda l’eventuale commissione d’inchiesta al dopo guerra indefinito, ma già accusa i generali di non aver saputo perseguire la “vittoria completa”, da lui promessa, e accusa l’opposizione al suo governo sovranista di aver minato l’unità nazionale agli occhi del nemico. All’interno dell’esercito già ci si prepara all’eredità: la nuova guardia d’ufficiali, che adesso vengono soprattutto dalle file dei nazional-religiosi e dei coloni.

Mi pare inutile criticare le tattiche della guerra. Si usa criticare l’assenza di strategia e di definizione chiara dell’obiettivo istituzionale a Gaza, invece del potere disastroso di Hamas, giustamente rifiutato, ma senza fornire alcuna alternativa.

Provo invece a immaginare che cosa avessero creduto che sarebbe potuto succedere, sia i generali sia i ministri che decisero per la guerra di vendetta, dopo il 7/10: guerra iniziata evacuando più di un milione di persone, per lo più rifugiati già dal 1948, verso la frontiera egiziana, con bombardamenti aerei a tappeto: cosa poteva succedere, secondo loro, continuando poi con 4 divisioni corazzate in una piccola striscia di 360 chilometri quadrati, tra le zone più densamente popolate del mondo?  Non per nulla alcuni ministri subito prospettavano una seconda Nakba (dopo la prima tragedia palestinese del 1948, con l’esilio di 650 mila persone).  Probabilmente credevano che la massa in fuga passasse nel Sinai e divenisse problema umanitario dell’Egitto e della comunità internazionale. Israele così avrebbe potuto dispiegare, senza ostacoli e senza opposizione internazionale, tutta la sua forza militare, che avrebbe, secondo loro, spaventato i terroristi al punto di arrendersi o fuggire, lasciando gli ostaggi non più sorvegliati.   Così, secondo tale speranza, sarebbe stato ripristinato il deterrente della maggiore potenza militare del Medio Oriente, gravemente intaccato il 7/10 da qualche migliaio di terroristi con armi leggere su furgoncini e motocicli. Credo che i nostri leader pensassero che lo spiegamento di grandi manovre (così chiamate le azioni di questa guerra) e l’ipotizzata rapida scomparsa di Hamas dalla scena locale, avrebbero potuto ripristinare la fiducia dell’elettorato e l’onore nazionale, intaccato dalle decine di villaggi distrutti e da quasi 200 mila civili evacuati, tutt’ora, all’interno di Israele dalle frontiere del sud e del nord. Tutti al governo, nell’esercito e tra il pubblico erano accecati dallo shock del 7/10, senza la minima empatia per la popolazione civile di Gaza, sicuri di non poter essere criticati per la rappresaglia a tali inverosimili atrocità delle ondate di terroristi assetati di sangue.   Fino ad ora la distruzione totale della striscia di Gaza e le enormi perdite civili palestinesi non riescono a passare la soglia della coscienza israeliana, anche se descritte da alcuni esperti all’estero come vero e proprio genocidio più o meno premeditato: così sembrerebbe dalle dichiarazioni di certi ministri e dalle proposte insane di ricolonizzare con ebrei il territorio di Gaza, una volta scomparsi miracolosamente i profughi. Cinquemila coloni ebrei erano stati evacuati nel 2005 da Sharon, in mezzo a 2 milioni di palestinesi dopo meno di 30 anni di colonizzazione.

L’attacco crudele di Hamas fece crollare non solo l’intelligence, le difese militari e il senso di sicurezza all’interno d’Israele, ma anche la concezione prevalente da più di 20 anni che il problema palestinese potesse essere “contenuto”, senza doverlo risolvere a prezzo di “concessioni” economiche da parte israeliana in Cisgiordania e di piccoli cambiamenti nella più grande prigione a cielo aperto, quale era divenuta la striscia di Gaza.

Sono appunto i governi nazionalisti israeliani che hanno lasciato da 20 anni Hamas dominare la striscia, coi soldi del Qatar e quelli meno ufficiali dell’Iran, mentre preparavano l’infrastruttura di gallerie, missili e militanti con cui continua adesso la resistenza all’esercito israeliano. Così, tra “manovre” militari ogni qualche anno contro il terrorismo dei missili, il governo israeliano poteva continuare con lo status quo, che serviva il progetto coloniale in Cisgiordania, volto all’annessione: i palestinesi divisi e non maturi per trattative e per implementare il diritto all’autodeterminazione, stretti tra terroristi fanatici da una parte che non accettano l’esistenza stessa d’Israele e  una corrotta e debole Autorità Autonoma dall’altra, non legittima neppure agli occhi dei suoi cittadini. Debole e resa illegittima anche e anzitutto a causa del disprezzo da parte israeliana, per il sostegno dato ai teppisti ebrei armati e il rifiuto di principio all’esistenza eventuale di uno stato palestinese a fianco d’Israele.

Senza diminuire la responsabilità del fanatismo estremo di Hamas, si dovrebbe concludere che l’unica spiegazione per la parte israeliana del crollo prima e dopo il 7/10 deve essere cercata solo nella politica interna israeliana, nella lotta di sopravvivenza al potere di Netanyahu e nella demografia della società ebraica in Israele, molto più prolifica tra i religiosi e gli strati meno colti e liberali.

Credo che si debbano prendere in considerazione anche fattori fondamentali che derivano dall’evoluzione dell’ideologia sionista, la raison d’être stessa dello Stato d’Israele. La sorpresa, l’impreparazione e il trasferimento dei soldati dai confini con Gaza alla Cisgiordania sono dovuti, certo, all’ hybris israeliana, come all’inizio della guerra di Kippur, nel 1973, inchiodati al mito della guerra lampo dei 6 giorni e di imprese come Entebbe. Ma la politica israeliana è sempre legata alla concezione del “muro di ferro”, formulata da Jabotinsky ma adottata dalle differenti correnti sionistiche, che solo la forza militare d’Israele contiene l’odio degli arabi, e dei palestinesi in particolare, contro il progetto nazionale ebraico. Così fin dal 1948 tutti i governi hanno cercato di limitare lo sviluppo nazionale palestinese, con la politica del “divide et impera”, eccetto il breve periodo di Oslo, sfruttando il terrorismo delle fazioni più estreme come prova che non sia possibile la coesistenza in Terra Santa di due progetti nazionali. Non per nulla il 17/7/2024, prima ancora che il Tribunale internazionale dell’Aia avesse dichiarato che la prolungata occupazione e la colonizzazione israeliana dei territori presi nel 1967 sono in pieno contrasto con il diritto internazionale, il parlamento israeliano ha votato a 69 contro 9 per rifiutare categoricamente l’eventualità di uno stato palestinese.

Le manifestazioni antisraeliane confermano che la funzione millenaria dell’ebreo errante, della vittima del mondo cristiano e anche quella dell’intellettuale e di chi investe nell’istruzione e nelle carriere accademiche senza frontiere è sempre più caratteristica dei palestinesi.  Ma non solo in questo: il presidente americano Biden racconta che, quando era un giovane senatore negli anni ’70, Golda Meir gli aveva svelato l’arma segreta israeliana: “non abbiamo un’altra terra”. Oggi la doppia cittadinanza o il tentativo di ottenerla è comune in Israele, mentre i palestinesi non sono accettati neppure dagli stati arabi, eccetto a suo tempo la Giordania. Forse la loro arma segreta è l’attaccamento alla terra famigliare, a cui devono l’identità, mentre noi ebrei ne pretendiamo il possesso, per promessa divina, storia antica o persino solo occupazione militare recente, non riconoscendo il valore emotivo personale e nazionale per i palestinesi.

Ecco, infatti, i coloni che “Arik” Sharon aveva evacuato nel 2005 dagli insediamenti israeliani di 20-30 anni nella striscia di Gaza, ci vogliono ritornare e sviluppare insediamenti ebraici sulle rovine della città di Gaza, distrutta dalla nostra aviazione.  Così l’esercito crede di essere “umanitario” ordinando l’evacuazione di centinaia di migliaia di residenti nelle varie zone della Striscia, per la terza o quarta volta di seguito, per permettere “manovre” aeree e terrestri antiterroriste.

Se gli ebrei dopo la Shoà avevano saputo farsi sostenere da tutte le parti, oggi Israele si trova quasi sola senza appoggio neppure dai nostri alleati tradizionali e neppure da tutti gli ebrei della diaspora: Israele trova adesso sostegno, eccetto in Germania, soprattutto da parte di governi e partiti di destra, alcuni xenofobi, con radici antisemitiche, fasciste e antimusulmane e da evangelisti cristiani che auspicano la guerra di Gog e Magog che farebbe ritornare il Cristo sulle nostre ceneri. Mentre i palestinesi, malgrado le divisioni interne, il terrorismo infernale e la sofferenza inumana recata alla propria popolazione, sono appoggiati da coalizione di parti nemiche tra loro come sciiti e sunniti e, in occidente, dalla bizzarra alleanza tra anticolonialisti laici, fanatici islamici e eredi della Resistenza antifascista e antinazista.

Nessuno in Israele osa dire che la “vittoria assoluta” è impossibile, data la decadenza dell’esercito nella missione coloniale in Cisgiordania. Anche perché di fronte si trovano il sostegno popolare palestinese alla resistenza a Gaza, eroica, adesso bisogna dire malgrado le orribili azioni del 7 ottobre, e le ramificazioni dell’Iran quasi nucleare nelle formazioni di guerriglia in Libano e in tutto il Medio Oriente.   Le esperienze dell’Algeria, l’Angola, il Vietnam, l’Afghanistan, dovrebbero convincere che, eccetto per ora la Cecenia soggiogata coi metodi di Putin, nessuna guerra può vincere a lungo la resistenza popolare. L’unica via per Israele di evitare la “sconfitta totale” sarebbe terminare la guerra, liberare gli ostaggi ed espellere i detenuti di Hamas fuori dalla Palestina e trattare per una soluzione politica del conflitto con i palestinesi, sotto l’egida di coalizione regionale e internazionale. Il prezzo è noto già dal 2002: mutuo riconoscimento delle aspirazioni nazionali e del diritto di autodeterminazione dei due popoli conviventi in Terra Santa. Solo tale coalizione d’interessi diversi può sradicare organizzazioni terroristiche come Hamas o Hezbollah, come a suo tempo l’ISIS, e permettere il ritorno degli sfollati israeliani, palestinesi e libanesi alle loro terre, ricostruendo villaggi e città distrutte, ripristinando una normalità di vita civile e la speranza per un futuro migliore per tutti.

Gerusalemme 3/9/2024

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