PIL: PRODURRE SÌ, MA COSA E  QUANTO

di Manfredo Montagnana

Mi rendo conto che quel che sto per scrivere potrà sembrare ai lettori più assidui di Ha Keillah ripetitivo e forse noioso, ma i dati che quotidianamente ci vengono ricordati dagli scienziati non lasciano dubbi: entro pochi decenni l’ambiente in cui viviamo è destinato a diventare sempre più ostile. A meno che . . . e qui vengono proposti diversi possibili interventi, escluso l’unico che mi sembra razionale e che ora cercherò di spiegare.

Incominciamo dagli effetti di questo PIL che appassiona non solo il sottoscritto ma più ancora gli esperti dell’economia e della politica. Detto che l’acronimo significa “Prodotto Interno Lordo” ricordo che il PIL viene solitamente assunto come misura del grado di sviluppo o di progresso di una nazione e dunque del benessere dei suoi cittadini: se cresce stiamo meglio. Purtroppo ci si dimentica del fatto che un aumento del PIL spesso corrisponde ad un aumento delle merci prodotte e dei consumi, con effetti deleteri sull’ambiente. Qualunque siano gli accorgimenti tecnologici e le scoperte scientifiche, non c’è dubbio che la crescita della produzione delle merci comporta un maggiore consumo di energia e di materie prime; e non sto qui ad annoiare i lettori con dati e ricerche sulle conseguenze, basta consultare internet.

Tornando ai possibili interventi, escluso quello che i sostenitori della crescita illimitata del PIL chiamano sprezzantemente “ritorno all’età della pietra”, si tratta non già di impedire la crescita della produzione di ogni tipo di merce ma di aprire un confronto economico-politico su QUALI MERCI vadano effettivamente prodotte e IN CHE QUANTITÀ. Ad esempio, sembrano inaccettabili i continui cambiamenti di modelli di merci come le automobili oppure i cellulari senza offrire miglioramenti reali delle prestazioni, così come nelle nazioni tecnologicamente avanzate è inaccettabile lo spreco considerevole nel consumo di merci “vitali” come gli alimentari e le varie forme di energia.

Ci tengo a fare chiarezza: un accordo a livello mondiale che limiti la produzione di alcune merci sarebbe ovviamente contrario alla logica con cui opera il mondo delle imprese nell’attuale sistema economico-sociale. In buona sostanza, un simile accordo limiterebbe il diritto dei capitalisti di decidere da soli i settori produttivi in cui investire  il loro denaro e quindi l’entità del proprio profitto, intervenendo a gamba tesa sulla natura stessa del profitto e dello stesso capitalismo. Mi pare una conclusione così ovvia e naturale che difficilmente può essere contestata.

Sorge allora la domanda: come si può sperare di convincere gli imprenditori a rinunciare al “loro” profitto o meglio come si può sperare che i governi di tutte le nazioni del mondo si mettano d’accordo per  varare leggi che vadano in questa direzione?  Credo proprio che di fronte a simili ipotesi non si possa che restare molto molto scettici …