più giudaismo = meno democrazia?
di Rimmon Lavi
Per vari decenni è stato quasi consensuale tra i sionisti definire lo Stato d’Israele come “ebraico e democratico”. È vero che la parola “democratica” non appare nella Dichiarazione d’Indipendenza e che la democrazia per molti è compresa solo come rito elettorale e decisioni di maggioranza. Pur sempre senza dubbio l’unica democrazia del Medio Oriente è Israele, senza contare i territori occupati. Ma se già vari esperti di filosofia politica mettevano in dubbio la possibilità di una vera democrazia etnocentrica, la trasformazione a cui siamo testimoni e l’euforia della destra nazional-religiosa rendono l’equazione con i valori democratici liberali universali sempre più problematica.
È difficile spiegare in italiano il cambiamento semantico che avviene nella società israeliana, pur avendo alcune somiglianze politiche a ciò che succede in Italia: in italiano noi siamo chiamati “ebrei” come in ebraico “ivrim” dalla radice ebraica “ivri”, che nella Bibbia è l’attributo aggiunto ad Abramo arrivando in Eretz Israel e poi ai suoi discendenti. Mentre nelle altre lingue occidentali noi siamo chiamati jews, juifs, juden e in ebraico, solo moderno, “yehudim”, dalla tribù di Yehuda e uno dei 2 regni dopo Salomone, dalla guerra romana di Giudea e dalle traduzioni della Bibbia e del Vangelo. Così l’appellativo occidentale ricorda l’antisemitismo cristiano collegato a Giuda Iscariota, alla diaspora e al ghetto dei “giudei”. Proprio in reazione alla parola caricata di spregio, il sionismo aveva adottato per tutte le sue creazioni in preparazione dello Stato degli Ebrei la parola “ivrit” e le sue derivazioni: la lingua, la prima città, il lavoro, il sindacato, i licei, l’università, i gruppi militari – tutti “ivrim” (ebrei in italiano) e per carità non “yehudim” (giudei in italiano).
Chiarito questo, si può forse comprendere meglio anche in Italia, dopo le ultime elezioni in Israele, l’osservazione, attribuita a Shimon Peres già nel 1966, della tendenza, adesso all’estremo, alla vittoria del ”giudeo” (diasporico) sull'”israeliano”. Cioè la trasformazione dell’identità israeliana, promossa dal movimento sionistico, nel senso civile di rinascita ebraica moderna, negli anni prima e dopo la creazione dello stato per “saldare” assieme le varie ondate d’immigrazione. Questa diventa oggi un’identità “giudaica” (in ebraico “yehudit”), legata di più alle diverse origini diasporiche, alle istituzioni religiose ortodosse e ai miti etnici particolari. Essa esaspera la distinzione dalla minoranza araba, individuata col “nemico” esterno (come nella diaspora i “goyim”). Tale tendenza si rafforza proprio in contrasto allo sviluppo civile della Startup Nation israeliana con contatti globali, del processo d’integrazione progressiva (assimilazione?) della popolazione araba e anche dell’evoluzione pluralistica di molte comunità ebraiche nel mondo occidentale. Infatti, si rinforzano oggi in Israele proprio le caratteristiche rifiutate nei primi decenni, perché rappresentavano ciò che identificava la diaspora: i riti pubblici, lo stato civile anomalo e l’odio dei gentili (reciproco). Allora volevamo diventare come tutte le altre nazioni; oggi, pare si voglia nuovamente essere diversi, ma superiori invece che discriminati, con caratteristiche suprematiste.
Ancora prima della vittoria elettorale della lista Sionismo Religioso, che includeva la Forza Giudaica, erede del razzista Kahana, espressioni di questa trasformazione sono state tra altre la legge costituzionale della Nazione (che legalizza la supremazia giudaica e la discriminazione dei non ebrei) e la legge che legalizza l’appropriazione, o furto, di terre private palestinesi. Ma durante l’ultima campagna elettorale e le trattative per formare il nuovo governo (“di pura destra”) siamo testimoni di una vera orgia di “giudaismo” nelle definizioni aggiunte a tutti i nuovi ministeri o dipartimenti ministeriali affidati ai ministri o sottosegretari dai nuovi membri della coalizione: identità giudaica, tradizione giudaica etc. E tutto ciò non solo nelle definizioni, ma anche nei programmi dichiarati ad assicurare appunto la supremazia della popolazione ebraica (che conta all’interno d’Israele l’80%), la discriminazione dei non ebrei, degli ebrei non ortodossi (riformati o conservativi) e dei LBGT, la separazione delle donne in pubblico e anche l’esenzione degli Haredim (ortodossi estremi) da obblighi civili (materie di base nell’educazione, servizio militare, lavoro produttivo etc.).
In parallelo e contemporaneamente dovremmo essere molto preoccupati di fronte alla distinzione opposta che molti nella destra europea e americana fanno tra Israele e i giudei nella diaspora. Da una parte appoggio incondizionato a Israele e alla politica dei suoi governi, come avanguardia anti-mussulmana (anche per dar prova di non essere loro stessi antisemiti). Dall’altra invece condiscendenza con gruppi e individui, all’interno o ai margini dei movimenti di destra, che esprimono più o meno palesemente razzismo, xenofobia e persino antisemitismo specifico, spesso assieme a negazionismo, nostalgie e simboli del passato, tragico per noi ebrei.
Da queste evoluzioni opposte e complementari sorgono alcune domande sulla realizzazione del sionismo, che è pur sempre l’esempio migliore di successo di una rivoluzione sociale e nazionale di un popolo: quello ebraico, dopo millenaria dispersione e persecuzione. Certo, anche le voci da sinistra che criticano legittimamente la politica di quasi tutti i governi israeliani, dopo il 1967, coprono spesso anche radici e sentimenti antisemiti non meno pericolosi di quelli “classici” delle destre nazionalistiche, e spesso sembrano mettere in dubbio la legittimità stessa dell’autodeterminazione e irredentismo del popolo ebraico, contrariamente a quella di altri popoli. Ma dati i successi popolari e politici del nazionalismo estremo e xenofobo in Polonia, Ungheria, Russia, Ucraina, Francia, Svezia (!!) e ultimamente Italia e Israele, anche noi ebrei, che pure siamo stati le vittime per accellenza della follia suprematista, dobbiamo chiederci come si possa evitare la trasformazione dell’identità nazionale in pretesto per populismo e demagogia anti-liberale, quale fu sfruttata dai regimi totalitari del secolo scorso.
Sia Mazzini sia Herzl avevano lottato e predicato la rinascita nazionale rispettivamente per l’Italia unita e per lo stato degli ebrei, liberi da dominio straniero, dispotismo e discriminazione. Ma entrambi vedevano il processo particolare come parte dell’autodeterminazione dei popoli, in forma umanistica liberale, basata sull’uguaglianza di tutti gli individui e di tutte le nazioni. Non per nulla per Mazzini la Giovine Italia era premonitrice della Giovine Europa e per Herzl lo Stato degli Ebrei doveva essere esempio di coesistenza dei cittadini delle differenti fedi ed etnie e ponte di modernizzazione post-coloniale all’interno d’un sistema politico come il Commonwealth (prima del crollo degli imperi multinazionali).
In Israele manca il baluardo principale della democrazia, una costituzione, la cui formulazione fu bloccata fin dall’inizio nel 1949 dai religiosi. Questi hanno ostacolato anche il lento processo incompiuto di leggi costituzionali, e hanno impedito l’uso del termine e del principio di uguaglianza tra i cittadini: cioè in Israele la promessa della Dichiarazione di Indipenza del 1948 di “assicurare uguaglianza completa nei diritti sociali e politici a tutti i suoi cittadini, senza differenza di sesso, razza e credenza” è rimasta buona intenzione su cui si è basata per anni l’interpretazione del tribunale supremo, quando gli era possibile, ma non valida per molte leggi e decisioni governative discriminatorie. Oggi c’è pericolo diretto di rovesciamento del sistema giuridico che poteva ancora difendere le minoranze e i diritti fondamentali dell’uomo.
Fa quindi paura l’ondata nazionalistica attuale che trascina anche molti tra i giovani ortodossi e alcuni dei loro rabbini, contrariamente alle precedenti posizioni più moderate dei rabbini e degli apparati dei partiti haredim, in rispetto diasporico per le autorità. Chi sarebbero gli obbiettivi mirati dai nazional-religiosi arrivati ebbri al potere? Anzitutto, certo, i palestinesi nella zona C, sotto controllo militare e civile israeliano, sotto minaccia continua dall’espansione delle colonie ebraiche, e soprattutto dai teppisti delle colline e delle fattorie illegali, chiamate eufemisticamente “giovani insediamenti”. Poi i beduini nel Neghev, che l’assenza di pianificazione e di riconoscimento delle loro necessità di sviluppo (di fronte a sviluppo urbano ebraico intensivo, e attribuzione di vasti terreni demaniali a famiglie singole di ebrei) ha portato certo a forme di delinquenza e di violenza estrema. Dopo ci si aspetta gravi tensioni, in seguito a provvedimenti discriminatori, nelle città miste: Acco, Lod, Ramla, Jaffa tra gli arabi e gruppi ebraici nazional-religiosi insediati in modo provocatorio negli ultimi anni per giudeizzarle (come anche in quartieri mussulmani di Gerusalemme est dentro e fuori le mura). Ma poi saranno anche le donne a sentire gli effetti della nuova coalizione e naturalmente gli LGBT, esclusi dallo spazio pubblico, anche se, forse per ora, non colpiti nei diritti personali. E non so dire cosa sarà dei “sinistroidi”, non sionisti, cioè traditori, già minacciati d’espulsione e di annullamento della cittadinanza. I partiti arabi erano e sono esclusi dal gioco politico col pretesto che non sono “sionisti”, per non dire “ebrei” (come se invece il partito religioso ashkenazita Agudat Israel lo fosse!), e sosterrebbero il terrorismo. Adesso, malgrado la corta parentesi dell’ultimo governo di coalizione anti-Netanyahu, ancora meno gli arabi si vedono partecipi alle decisioni che li riguardano. Solo la cooperazione tra le minoranze etniche, ideologiche, sociali e religiose potrebbe creare, come forse in America, un’alternativa liberale ma comunitaria e non elitista: la sua realizzazione sembra quasi impossibile.
E nulla ho detto dei pericoli, unici a Israele, di innesco, per azioni di forza unilaterali, per esempio sulla spianata del Tempio / delle Moschee, di nuova intifada, di guerra civile, di urti armati con stati arabi vicini, con l’Iran e le fazioni a lui legate o col mondo islamico
Gerusalemme