POSTILLA ALL’EMERGENZA SUPREMA

di Emilio Jona

 

Leggo questo confronto su di un tema di interesse fondamentale e mi rallegro che in un tempo in cui la natura del dibattito tra opinioni diverse è scarsamente dialogico, aspro, attestato su sentieri di guerra e spesso sull’insulto, abbia invece una pacatezza e un rispetto delle regole di un dibattito civile.

Debbo dire a questo riguardo che sono sostanzialmente d’accordo con i rilievi critici che Calef ha mosso nei confronti dei sofferti e pensati distinguo contenuti nell’articolo che analizza. Aggiungo solo una postilla che riflette una mia posizione divergente da due delle sue critiche.

Calef parte da considerazioni sacrosante sulla natura di Hamas che teorizza e pratica una violenza senza discriminazioni tra civili e soldati e non si cura di proteggere i civili palestinesi, anzi, aggiungo, li utilizza deliberatamente come vittime destinate al sacrificio, come sangue indispensabile per realizzare i propri scopi: egli contesta però che nell’articolo che esamina mentre si tiene conto del pensiero e del comportamento di Hamas, non si tiene invece conto dei pronunciamenti di importanti leader israeliani che hanno manifestato lo stesso identico disprezzo e la stessa volontà di distruzione. Vorrei solo obbiettare che c’è però una differenza di qualche rilievo perché, mentre la violenza senza discriminazione è prassi e teoria dell’intero movimento di Hamas e in genere degli stati e dell’opinione pubblica islamica, in Israele è invece condivisa solo da una parte, certamente rilevante, forse maggioritaria, ma non dalla totalità dell’opinione pubblica e dai suoi rappresentanti nella Knesset. Voglio dire che un pezzo d’Israele e della diaspora può almeno vantarsi di non stare da quella parte.

La seconda osservazione è più di sostanza, io penso che Calef abbia perfettamente ragione, che sul piano oggettivo non ci troviamo di fronte a una “esigenza suprema”, che giustificherebbe una reazione senza limiti; vale a dire che non siamo in presenza di un rischio reale di sterminio di un intero popolo come quello subito dagli ebrei in una deliberata e pressoché realizzata distruzione fisica, come nella Shoah. Le ragioni che Calef adduce sono probanti, ben elencate e analizzate, non ultima quella che l’America non consentirebbe mai la distruzione di Israele, ma non si può ignorare che dopo essere venuti ai fatti è necessario passare ai simboli racchiusi in quei fatti, vale a dire alle percezioni, al vissuto, alle associazioni alle reazioni, alle paure che quei fatti hanno generato nelle persone.

Ora questo vissuto non corrisponde strettamente ai fatti, non li analizza freddamente ma si traduce in una serie di risposte e di sensazioni che da quei fatti trae alimento e che hanno creato una miscela esplosiva fondata su di un odio profondo, una violenza senza confini e un’atavica paura.

Elenco in rapida sintesi i suoi evidenti principali elementi:

Il 7 ottobre è stato il fatto più traumatico e più coinvolgente che mai abbia mai colpito un ebreo e un israeliano dopo la Shoah. Questa mattanza è stata percepita come l’inizio, pienamente riuscito, di un progetto di sterminio della nazione d’Israele e dell’ebraismo, posto in essere non solo dai militanti di Hamas, ma anche dalle migliaia di civili gazawi che hanno partecipato a quell’orrendo macello, e questa percezione è stata drammaticamente e immediatamente avvalorata dalle imponenti manifestazioni di consenso e di esultanza di centinaia di migliaia di cittadini di tutte le capitali arabe mediorientali, ben prima della feroce reazione israeliana a cui è seguita una pressoché generale dimenticanza di quel pogrom di proporzioni gigantesche a cui è seguita un’attenzione tutta rivolta alla disumana risposta israeliana.

È caduta miseramente di fronte al 7 ottobre, in Israele e nel mondo ebraico, la radicata percezione di sicurezza, di forza e di fiducia nell’invincibilità del suo esercito di popolo e quella dell’efficienza e dell’intelligenza preveggente dei suoi servizi segreti, un tempo considerati i migliori del mondo. A ciò aggiungerei le demenziali scelte politiche dei governanti con il cieco e criminale spostamento di truppe dal confine di Gaza alla Cisgiordania a sostegno delle malefatte dei coloni fondamentalisti.

Ne è seguita una collera, una sete di vendetta, una caduta di empatia, su cui la destra estrema e il capo del governo hanno largamente soffiato, e insieme un’atavica paura, una perdita di sicurezza e di autostima, una percezione di accerchiamento di stati arabi ostili e della presenza incombente di un potente nemico esterno composto da un miliardo di musulmani complici e plaudenti su di una immaginaria Palestina libera di ebrei dal Giordano al mare.

C’era quanto basta per dare forza e contenuto di realtà e di verità a un pericolo solo soggettivamente e non oggettivamente esistente.

Vorrei aggiungere che ovviamente ciò non giustifica nulla della reazione israeliana.  Essa resta quello che è: sconsiderata, disumana, sproporzionata, eticamente riprovevole, fallimentare sul piano militare politico, sociale e moltiplicatrice di antisemitismo nel mondo.