Intervista a Ruben Piperno, a cura di Beatrice Hirsch
Giugno è il mese del Pride, in centinaia di città in tutto il mondo sfilano migliaia di persone per celebrare la libertà di essere chi si è e per lottare perché tutti e tutte possano vivere la propria identità con gli stessi diritti. Negli ultimi decenni la Comunità LGBTQ+ mondiale ha intrapreso quello che può essere definito un percorso di lotta intersezionale: un approccio politico e teorico che si concentra sulla comprensione delle intersezioni tra le diverse forme di oppressione e discriminazione, e sulla promozione della solidarietà e dell’alleanza tra le persone che lottano insieme per un obiettivo finale comune di liberazione. L’intersezionalità non è sempre facile e quest’anno ci sono stati più episodi che hanno portato alla luce quanto alcune prese di posizioni radicali in difesa della Palestina sono scaturite in gravi discriminazioni nei confronti degli ebrei in toto, che si sono ritrovati non più benvoluti e al sicuro in determinati ambienti di lotta sociale.
Uno degli episodi più eclatanti ce l’ha portato agli occhi questo mese Magen David Keshet Italia (MDKI), l’unico gruppo ebraico LGBTQ+ che lotta per i diritti di ebrei ed ebree LGBTQ+ all’interno delle comunità ebraiche italiane e all’interno della comunità queer stessa.
Ne ho parlato con Ruben Piperno, Consigliere della Comunità Ebraica di Torino e membro del Board di MDKI.
Negli ultimi due anni, grazie a Keshet, abbiamo visto presente un carro che rappresenta la comunità Queer ebraica al Pride di Roma, com’è stata questa esperienza?
È difficile da definire. Nella mia vita ho partecipato a molti Pride, in diverse parti d’Europa. L’ambiente creato a Roma, però, ha costituito per me una maggiore profondità e consapevolezza di cosa significhi manifestare con fierezza la propria identità. Il Pride, a mio avviso, vuole essere un momento in cui ogni individuo può scendere in piazza con la propria identità ed esporla con fierezza e sicurezza. Avere un carro è stato un po’ il coronamento di questo sentimento, uno spazio sicuro dove non solo venivano rappresentate le identità queer, ma anche quelle ebraiche, e devo dire siamo stati accolti per lo più con ammirazione dalla folla. Il carro al Pride di Roma ha rappresentato per me e per molti correligionari un nuovo capitolo del Pride, con un riscontro accogliente e caloroso che, ahimè, non capita in tutti gli ambienti rappresentativi delle nostre identità.
Come associazione facevate parte del Coordinamento organizzativo del Pride?
No, Keshet oggi non è parte del Coordinamento. Abbiamo però membri del nostro direttivo che, internamente al coordinamento, si battono per perorare i punti del nostro statuto che vertono sulla prevenzione di ogni forma di antisemitismo.
Negli scorsi anni avete avuto esperienze negative in quanto ebrei all’interno del coordinamento o al Pride?
Anche se alcune situazioni hanno offerto diversi spunti per parlare di atti di velato antisemitismo, mi sento di affermare che per ogni leggero attacco, ci sono sempre state centinaia di parole di supporto. Possiamo dire che quella degli ultimi anni sia stata un’esperienza coerente con quanto succede nella vita di tutti i giorni in ambienti universitari, sociali e lavorativi che permeano le vite di tutti noi. Sicuramente dobbiamo questo al continuo e costante impegno dei nostri iscritti nel raccontare in modo trasparente ed educato la nostra realtà, investendo tempo e pazienza nel formare e sensibilizzare le persone vicine con cui collaborano.
Quest’anno avete deciso di non partecipare come associazione, cos’è cambiato? E qual è stato il momento culmine che vi ha portato a prendere una decisione così drastica?
La decisione è stata sofferta. Giorno per giorno abbiamo sondato l’ambiente che ci circondava, dai diversi comunicati e manifesti politici fino alle pagine social dei Pride, passando anche per le pagine e i canali di esponenti influenti del mondo politico. Abbiamo speso innumerevoli ore, vivendo picchi emotivi diversissimi fra loro. La decisione ultima di non partecipare è arrivata pochi giorni dopo l’uscita del comunicato del Bergamo Pride, quando ormai molti elementi per partecipare con il carro erano già stati definiti e prenotati. Abbiamo però sentito in noi il primario dovere di tutelare i nostri sostenitori, avendo loro età più disparate. L’ultimo (disperato) tentativo è stato cercare supporto e sicurezza presso le nostre comunità che, però, ancora oggi faticano ad accettare l’esistenza di ebrei queer che necessitano di essere riconosciuti, accettati, protetti e in determinati contesti reintegrati.
In che senso avete sentito la necessità di tutelare i vostri sostenitori? Si tratta quindi di una questione di sicurezza? È rischioso quindi nel 2024 andare al Pride in quanto ebrei*e?
Sì, è principalmente una questione di sicurezza. Abbiamo sentito la necessità di tutelare i nostri sostenitori a causa di diversi segnali preoccupanti. I comunicati emessi da alcuni Pride, come quello di Bergamo, indicavano chiaramente che la bandiera di Israele o simboli che potessero richiamarla (e sembra ovvio che si riferissero proprio alle bandiere di Keshet a sfondo arcobaleno con la magen David bianca al centro) non erano ammessi. Il Pride di Torino, nel suo comunicato, ha manifestato solidarietà al popolo russo, palestinese, ucraino, e… e basta. Il Milano Pride ha seguito il comunicato sulla falsa riga di Torino.
A tutto questo si sono aggiunti commenti sui social dove il nostro carro veniva detto essere “finanziato dalla lobby sionista” e dove alcuni commenti recitavano “spero non ci siano carri con la stella di David”. Altri commenti invitavano a salire sui treni in direzione Polonia, o goliardicamente chiedevano “forni ne abbiamo?” o ancora ammonivano dicendo “quest’anno onestamente farebbero meglio a starsene lontani gli EBREI”.
Abbiamo ritenuto che questo clima non fosse di matrice antisionista, ma antisemita, denunciandolo nelle sedi opportune. Tuttavia, per ragioni politiche, è stato preferito non affrontare il problema. Una situazione come quella descritta ci ha messo in allarme. Prendendo in prestito le considerazioni che Freud e Canetti fanno sulle “masse”, abbiamo ritenuto che portare giovani, e meno giovani, tra quasi un milione di persone che potevano agire in modo incosciente, irresponsabile, irrazionale e incontrollato, non fosse rispettoso nei confronti di chi ripone la sua fiducia in noi e che in Keshet riconosce un organo di tutela nel mondo ebraico-queer, sia verso l’esterno che verso l’interno.
Ci sono state delle associazioni che vi hanno dimostrato solidarietà?
In ambito ebraico abbiamo ricevuto messaggi di solidarietà dal GET (Giovani Ebrei Torinesi) e, come assessore della Comunità Ebraica di Torino, sono intervenuto alla conferenza stampa sul tema, in accordo con tutto il Consiglio, per manifestare solidarietà a Keshet Italia. Abbiamo poi ricevuto supporto dagli amici Radicali, in particolar modo dall’associazione Adelaide Aglietta, l’Istituto liberale, i giovani di Forza Italia e personaggi politici di spicco che hanno aiutato la diffusione del nostro messaggio in questo delicato periodo. Ovviamente sono poi arrivati tanti messaggi di vicinanza privati che, però, abbiamo inteso essere solo a titolo personale, avendo trovato comprensibile difficoltà nel trovare un riscontro pubblico per ovvi motivi.
Come pensi che evolverà questa impasse? State continuando a dialogare con altre realtà?
L’augurio è che i coordinamenti Pride aprano gli occhi sul crescente problema di antisemitismo che si annida negli ambienti da loro presidiati e che, come alcuni hanno già promesso, inizino dei percorsi di formazione e sensibilizzazione sul tema. L’augurio, oltre a intensificare questo percorso di dialogo e formazione con gli ambienti queer, è anche quello di essere riconosciuti dall’UCEI, certi che, se ambienti difficili come quelli che sorprendentemente ci stanno aprendo le porte, anche a casa nostra possa esserci un’importante (e doverosa) presa di coscienza e responsabilità nei nostri confronti.
Per il 25 aprile la Comunità Ebraica di Roma ha deciso negli ultimi anni di distaccarsi dal corteo e fare una cerimonia separata, pensi che possa essere un’opzione realistica da intraprendere anche per Keshet?
Assolutamente no. Il Pride è anche nostro. Sarà un percorso sicuramente impegnativo, ma non siamo disposti a sacrificare nessuna delle nostre identità per il piacere di coloro che non ammettono e tutelano le nostre identità.
Pensi che quando la situazione in Israele e Palestina si calmerà sarà più facile tornare a dialogare con alcune realtà?
Penso che la situazione in Medio Oriente abbia riaperto una grande ferita che con il tempo diventerà una cicatrice di monito per tutti noi, ricordandoci quanto l’antisemitismo sia una creatura immortale che, anche senza testa, ha imparato a sopravvivere strisciante nei meandri della nostra società civile, che in tempi non sospetti era lieta di abbracciare i nostri simboli e ideali. Una volta calmatesi le acque, molti dimenticheranno il giorno successivo quanto detto, fatto e sostenuto. Credo sarà nostro dovere non dimenticarcene e impegnarci affinché singoli ed organizzazioni prendano coscienza su tematiche identitarie a noi care in quanto ebrei.
Quali sono i prossimi passi che avete in programma come Keshet?
Il prossimo appuntamento sarà nei prossimi giorni a Milano: in conferenza stampa, accanto a molti nostri alleati, ribadiremo l’impossibilità di partecipare al Milano Pride per le motivazioni ormai note a tutti. A settembre Keshet sarà ospite a Torino per la Giornata Europea della Cultura Ebraica, dove il tema centrale sarà la famiglia. Invitare Keshet credo sia uno dei segnali migliori che l’ebraismo italiano potesse mandare a istituzioni, correligionari e non. Continueremo poi con il nostro lavoro in tutta Italia per assicurare che il fenomeno dell’antisemitismo nelle realtà queer non si propaghi ulteriormente e, ovviamente, con il delicato compito di tutelare l’identità queer nelle comunità ebraiche italiane, offrendo spazi sicuri di dialogo e accettazione per chiunque ne abbia necessità. L’anno che ci aspetta sarà volto a iniziare percorsi di sensibilizzazione in ambito queer e in ambito ebraico per prevenire e combattere ogni forma di discriminazione nei confronti degli ebrei queer.
Vorresti lanciare un appello in chiusura?
Sì, l’appello che faccio è rivolto ai membri delle comunità ebraiche.
Questi mesi ci hanno fatto ritrovare un senso d’unione che spesso in alcuni di noi si è affievolito. Credo sia centrale fermarci a riflettere su quanto l’indignazione che abbiamo provato nel leggere dell’esclusione degli ebrei dai Pride ci abbia accomunato. Credo che questa indignazione debba spingerci a fare in modo che, per prime, le nostre comunità non escludano i membri queer che ne fanno parte e impegnarci tutti insieme nel garantire il riconoscimento a Keshet che da sempre si impegna, con più difficoltà di quanto si possa immaginare, a tutelare una minoranza nella minoranza. Facciamo davvero nostro il principio, esasperatamente ripetuto, secondo cui finché uno di noi è discriminato, lo siamo tutti. Offriamo un esempio di rettitudine e inclusione come nessuno prima ha mai osato fare.
Giugno 2024