PROTESTA IN TRAPPOLA
di Ruth Garribba
La guerra in Israele prosegue imperterrita da nove mesi, e se le azioni militari continuano più o meno con lo stesso andamento, nella società israeliana sono riconoscibili flutti variati che reagiscono alle circostanze politiche e militari.
Uno dei cambiamenti più facili da rilevare dall’ inizio del conflitto è il ritorno delle manifestazioni nelle città israeliane il sabato sera. I primi a protestare sono stati i parenti degli ostaggi, che dopo un’attesa di qualche settimana, nella speranza che il governo concludesse un accordo per il rilascio dei loro cari, hanno realizzato che rimanere in silenzio sarebbe stato una rinuncia alla speranza di riabbracciarli. Mentre i familiari si organizzavano tra loro, tentavano di capire dalle autorità militari chi era stato preso in ostaggio a Gaza e chi era stato ucciso il 7 ottobre (a volte sono passati mesi prima di avere una risposta certa a queste domande), il movimento di protesta imponente e molto ben organizzato che si era solidificato nei mesi precedenti al 7 ottobre ha offerto alle famiglie degli ostaggi la propria rete organizzativa, le proprie risorse umane e simboliche. Uno dei simboli principali è senza dubbio Rehov Kaplan, l’ampia strada di Tel Aviv dove si sono svolte le enormi manifestazioni contro la riforma giudiziaria tra gennaio e settembre del 2023. Ma le famiglie degli ostaggi hanno preferito prendere una certa distanza dal movimento di protesta contro il governo di Netanyahu per una duplice ragione. Innanzitutto, per via delle differenze ideologiche e politiche esistenti fra le famiglie stesse e in secondo luogo – ma non di minore importanza – dalla loro esigenza di sollecitare la solidarietà e il coinvolgimento nella lotta della liberazione degli ostaggi di quanti più parti della società israeliana, a prescindere dal credo politico. Insomma, non volevano essere etichettati come un gruppo “di sinistra”.
Ad innescare la miccia della protesta delle famiglie degli ostaggi, il 14 ottobre, è stato Avihai Brodetz del kibbutz Kfar Aza di cui la moglie e i tre figli erano prigionieri a Gaza. Brodetz ha preso una sedia di plastica e si è seduto con un cartello a via Kaplan di Tel Aviv, all’ingresso della “Kirya”( il complesso di edifici a Tel Aviv dove risiede il Capo di stato maggiore dell’ esercito e altri organi governativi di difesa). La sua presenza ha attirato centinaia di persone che sono venute a dargli conforto e solidarietà. Questo atto spontaneo ha dato vita alla “Piazza degli Ostaggi” che da otto mesi a questa parte si trova di fronte all’altro ingresso della Kirya, non quello “di sinistra” su via Kaplan, ma sullo spiazzo del Museo d’Arte di Tel Aviv, al lato opposto dell’isolato.
Così negli ultimi mesi, da quando sono riprese le proteste contro il governo, che pretendono le sue dimissioni e le elezioni, c’è ogni sabato sera lo stesso rituale: qualche decina di migliaia di manifestanti si concentrano a Kaplan, con gli slogan le magliette e i cartelloni anti-governativi e, in parte, anche con messaggi critici verso la guerra . Dopo circa un’ora, comincia a pochi isolati di distanza il comizio nella Piazza degli Ostaggi. Quasi tutti quelli che hanno cominciato la serata a Kaplan si spostano verso il Museo, mentre altri raggiungono volutamente solo il secondo comizio. Il passaggio fra le due manifestazioni si fa in pochi passi, ma la differenza è grande: se a Kaplan la rivendicazione di un cambiamento politico è la base della protesta, nella Piazza degli Ostaggi a parlare sono il dolore e la disperata richiesta che il governo faccia tutto il possibile per far tornare tutti gli ostaggi da Gaza, vivi.
Anche nei presìdi di protesta in altre città israeliane, le due anime del movimento si tengono ad una certa distanza. Per esempio a Karmiel, nel Nord, il venerdì a mezzogiorno si riuniscono a chiedere la liberazione degli ostaggi, mentre il sabato sera, allo stesso incrocio, si manifesta per un Israele diverso: più democratico, più liberale, meno estremista e guerrafondaio.
Sia l’area più radicale che quella meno “politica” della protesta sono preoccupate per il fatto che le centinaia di migliaia di persone che hanno dato prova di un eccezionale senso civico l’anno passato, ora non scendono in piazza. Yiran Alperin, psicologo a capo di AChord, un’organizzazione accademica-attivista che usa la scienza della psicologia sociale per promuovere l’uguaglianza e la tolleranza nella società israeliana, è convinto che la delusione per le piazze mezze vuote sia dovuta soltanto alle eccezionale dimensioni della protesta dell’ anno scorso. Se paragoniamo invece la protesta di questi ultimi mesi a simili manifestazioni in altri paesi in stato di guerra, allora riusciamo a vedere che si tratta di un movimento coraggioso e ampio.
Uno dei principali ostacoli ai movimenti di protesta è lo sconforto delle persone. La società israeliana negli ultimi mesi ha molte ragioni per essere in preda allo sconforto, e i sondaggi dimostrano che lo scoraggiamento è comune ad arabi e ebrei, sostenitori di destra e di sinistra. Chi non ha fiducia nel politici e nelle istituzioni, ma si sente in dovere di andare a combattere o mandare i propri figli all’esercito – come la grande maggioranza dei cittadini ebrei israeliani – si trovano in una trappola da cui è assai difficile liberarsi: in moltissimi credono che il governo stia conducendo la guerra per ottenere vantaggi politici, ma solo l’idea di opporsi alla guerra scoppiata dopo il 7 ottobre è impensabile per il pubblico israeliano.
In fin dei conti, la gente scende in piazza quando ha speranza di cambiare la realtà, ma la capacità di immaginare il cambiamento in questi ultimi mesi è patrimonio di troppo poche persone in Israele.
Israele,18 giugno 2024