RAPITO
di Bruna Laudi
Un titolo, una parola che è una coltellata. Chiunque sia genitore o abbia in custodia dei bambini sa che questo è un terrore ancestrale: sei in un luogo affollato, ti distrai un momento, ti volti e non lo vedi, ti senti morire.
Il rapimento di Edgardo Mortara, nel film, viene invece annunciato da un ufficiale di polizia che è chiaramente riluttante a eseguire un ordine che sente come disumano ma che proviene direttamente dalla autorità regnante, per voce di un algido inquisitore, convinto di essere il messaggero di una volontà divina (il cardinal Antonelli superbamente interpretato da Fabrizio Gifuni).
La storia è vera, documentata. Sicuramente non è stato un caso isolato: il film lo riporta, mostrando tanti piccoli catecumeni ospitati in un collegio a Roma. La maggioranza di loro proviene dal Ghetto, che il regista ci mostra in alcune scene nella sua povertà e degrado, a testimonianza di un potere che governa con arroganza e distacco dalla realtà, inconsapevole o cieco di fronte alla fine imminente.
La rappresentazione dell’ambiente ebraico, delle ritualità, dei rapporti interpersonali, della recitazione delle preghiere dimostrano, da parte del regista Marco Bellocchio, un grande rispetto per il tema trattato.
Colpisce l’ambientazione che fa da cornice al film. Prevalgono i colori scuri, tenebrosi: gli interni di casa Mortara, il collegio dei Catecumeni. Molto suggestiva l’idea del viaggio notturno sul fiume, che evoca il tragitto verso l’Ade per il bimbo e per la sua famiglia. Poi c’è lo sfarzo della residenza papale, l’austerità del collegio, il mistero per il piccolo Edgardo della chiesa, con i suoi segreti, le immagini per lui sconosciute, terrifiche ma nello stesso tempo fascinatrici: proprio l’evoluzione del rapporto tra Edgardo e le icone del cattolicesimo racconta il cambiamento interiore del bimbo che viene portato ad abbracciare la nuova fede.
Non riusciamo ad entrare come vorremmo nei pensieri di Edgardo, a capacitarci della sua conversione interiore: sindrome di Stoccolma? Probabilmente il paragone è improprio, ma a me è venuto in mente don Milani: nell’apologia di cui è circondato pochi ricordano le sue origini ebraiche e in quale misura abbiano influenzato le sue opere e i suoi pensieri. Forse nel film l’aspetto meno indagato è proprio la conversione interiore di Edgardo.
Sono molto ben rappresentati i caratteri dei personaggi ed i comportamenti della famiglia Mortara, dell’ambiente ebraico nazionale e internazionale. All’interno della famiglia emerge subito la difficoltà per la coppia di genitori ad affrontare in modo univoco il dramma della separazione dal figlio: la madre ha una reazione viscerale, il padre è dilaniato tra il dolore suo e della moglie e il bisogno di consultarsi con gli altri membri della comunità, è posto di fronte a un potere assoluto, inflessibile e sa che qualunque errore o ingenuità verrà pagato a caro prezzo. Le reazioni sono scomposte e scoordinate: c’è chi sollecita la stampa internazionale a occuparsi del caso e chi, come i maggiorenti della comunità di Roma, suggerisce un comportamento umile e sottomesso quale quello che sono usi adottare nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche. Sembra di rivivere le dinamiche interne alle comunità ai tempi del fascismo o nei ghetti di Europa sotto l’occupazione nazista. In realtà purtroppo non esistono ricette vincenti di fronte al sopruso.
Lo strazio della famiglia raggiunge il suo apice nella scena finale, quando Edgardo, al capezzale della madre morente, tenta di convertirla: il legame familiare è definitivamente spezzato.
Bravi tutti i comprimari: dalla servetta, responsabile inconsapevole del rapimento a causa del battesimo segreto imposto ad Edgardo neonato, al sacerdote che sarà la guida spirituale del bambino nel collegio, ai piccoli catecumeni cui Edgardo si appoggia, per capire la nuova realtà e adattarvisi al più presto, consapevole che solo l’omologazione gli permetterà un certo equilibrio nella nuova comunità.
Veramente convincente Enea Sala, nei panni di Edgardo bambino: comunica soprattutto attraverso lo sguardo, sempre attento a ciò che lo circonda, combattuto tra gli affetti della famiglia e la nuova realtà, dove comunque si sente amato e accolto.
La figura più inquietante è Pio IX, interpretato nel film da Paolo Pierobon: sicuramente era difficile rappresentare un Papa che si muove alla vigilia della caduta del suo regno temporale, consapevole di quanto sta per accadere ma che non per questo modifica la sua politica. Però ho trovato l’interpretazione eccessiva, a tratti macchiettistica, in contrasto con l’iconografia dell’epoca. Strano come di fronte a personaggi storici che hanno governato con poca lungimiranza, a volte con crudeltà, si tenda a rappresentarne delle caricature: forse si ha paura di raccontarli troppo simili a noi.