di Davide Assael

Come accade anche ad altre latitudini, la destra estrema che oggi governa in diversi Paesi democratici, una volta al governo, è costretta ad abdicare al progetto propagandato con tanta foga negli anni all’opposizione. Così, mentre Giorgia Meloni pianta qualche bandierina identitaria per ovviare a puerili promesse in stile blocco navale davanti alla Libia, in Israele, perso il primo round sulla riforma della giustizia, il governo Netanyahu prosegue la sua svolta identitaria sul modello creato da Viktor Orban, che prevede il dominio di un ceppo dominante con cui si identifica un territorio. Dopo l’approvazione di un bilancio dello Stato assai generoso verso la comunità charedì, viene presentata in Parlamento una legge per rafforzare il carattere ebraico dello Stato. L’operazione è in continuità con la Legge della nazione del 2018, che, come in molti denunciarono, appare sempre più il tentativo di sostituire il sionismo classico con la visione del sionismo religioso, coniata, anche attraverso un confronto con i grandi schemi di filosofia della storia occidentali, dal Rabbino capo della Palestina mandataria, Avraham Itzhaq HaCohen Kook. La prospettiva di Rav Kook, morto nel 1935, aveva una direzione chiarissima: il sionismo, nonostante sia un movimento laico e non messianico, va supportato perché strumento nelle mani della Shekinà, che condurrà al ripristino del Sinedrio sulla Grande Israele dal Mediterraneo al Giordano. Seppur con le ambiguità ben riassunte nella famosa risposta di Amos Oz, «io non mi sento strumento nella mani di nessuno», era una prospettiva conciliante col mondo laico e vi aderirono molti pensatori che hanno segnato la storia del ‘900 e che non è possibile sospettare di dogmatismo. Si pensi solo a Martin Buber, che la declinò a suo modo. Le cose cambiarono dopo il ’67. A capo della Yeshivà Marchaz HaRav fondata dal padre c’era da tempo il figlio Yehudà Zvi, autore del famoso discorso negli insediamenti in cui negherà ogni possibile compromesso territoriale con gli arabi. Da allora, nel panorama politico israeliano, il sionismo religioso ha rappresentato la destra intollerante, che, col passare del tempo, si è sempre più tinta di venature suprematiste. Fino agli Smotrich e i Ben-Gvir di oggi. Presente culturalmente fin dall’origine dello Stato, il sionismo religioso, dopo varie trasformazioni politiche, non ha mai avuto un peso governativo come quello attuale. Lo aiuta essere del tutto indifferente alle tensioni nella società civile che ruotano attorno ad un Premier pluri inquisito. L’unico progetto politico è la ricostituzione dell’Israele biblico (qualunque cosa significhi). I processi di Netanyahu non sono certo un ostacolo, tanto c’è sempre pronta una teoria redentiva che si libera di ogni impaccio della storia, presentandolo come l’ennesima prova da superare. Quando la propaganda martellante della compagine di governo parla di queste proposte di legge in termini di concretizzazione degli ideali sionisti, si riferisce a questo sionismo, non certo quello di Herzl o di Ben-Gurion. Tra l’altro, prestando il fianco a tutti coloro che, per spirito antigiudaico, hanno assimilato il sionismo all’apartheid e utilizzano gli esiti attuali come conferma di quanto hanno sempre detto e pensato. Ma, in fondo, non è che faccia male un po’ di antisemitismo in giro ad un leader che si candida da anni a capo dell’ebraismo mondiale senza essere un granché corrisposto. Si veda l’ospitalità che ha ricevuto in ogni sua visita estera in questi ultimi mesi. È più facile avere un popolo riunito attorno a sé, se assediato dall’esterno. In questa retorica, c’è però della sabbia nell’ingranaggio: affermare l’identità sionista di Israele urta con gli altri partiti della maggioranza, visto che Agudat Yisrael, Deghel HaTorah, Shas sono partiti anti-sionisti, che partecipano alla vita politica dello Stato in un’ottica pragmatica, cioè per portare vantaggi alla propria comunità. Esattamente come si trovassero in qualunque altro Stato. Per loro, in sintesi, Israele non è lo Stato ebraico. Il tutto ha conseguenze assai concrete in termini di sussidi, esenzioni dalla leva e quant’altro. Chiaro che oggi siano insoddisfatti e reclamino i propri spazi. Come sempre, Bibi, a cui non interessa assolutamente nulla né del sionismo di Herzl, né del sionismo religioso, né dell’antisionismo (come appunto dimostrano le sue alleanze politiche dell’ultimo ventennio), ma a cui interessa solo se stesso, cercherà una qualche forma di compromesso perché per lui sembra l’ultima spiaggia: non ci sono maggioranze alternative disposte a supportare il suo progetto politico. Personalmente, non credo nemmeno alla possibilità di salvacondotti ad personam. Troppo complicato dal punto di vista giuridico. L’unico modo per salvarsi è limitare i poteri di magistratura e Corte Suprema. Gli unici disposti a farlo sono i partiti religiosi oggi al governo, che considerano questi poteri come baluardi della laicità dello Stato da scardinare. Insomma, in Israele si è al redde rationem: una parte dovrà imporsi sull’altra. Se se ne uscirà, potrà aprirsi una nuova era nello Stato ebraico, anche rispetto a quanto immaginato dai padri fondatori. Forse aveva ragione Rav Kook padre: bisogna raggiungere il fondo per poter risalire.

 

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