Ridar voce a chi è in prigione.

di Alessandro Treves

Anche a cielo aperto

Uzoma Orchingwa e Gabriel Surahashi avrebbero difficoltà, con quei nomi, a passare per WASP, bianchi anglo-sassoni e protestanti. Afroamericano dall’infanzia in Nigeria l’uno, brasiliano con radici giapponesi l’altro, sono ventenni, studenti di Yale, creatori di un’app, meno di un anno fa, che ha attratto l’interesse dei grandi, da Google a Mozilla a Twitter. Diventeranno ricchi? Forse, ma non per questa app, Ameelio.

Ameelio, da ameliorate, è un’idea senza fini di lucro, volta a migliorare la vita di una delle categorie più deboli della complessa società statunitense: i carcerati. A dar loro voce. Facilitandogli le comunicazioni con i propri cari. Non è molto noto, infatti, che negli USA due aziende fiorenti, Securus Technology e Global Tel Link, oltre ad altre minori, fanno affari vendendo a chi è in galera la possibilità di parlare con chi sta fuori, sfruttando le restrizioni che impongono che tutte le conversazioni siano controllabili – i prigionieri devono perciò avvalersi di compagnie telefoniche i cui servizi sono certificati da uno speciale contratto con l’amministrazione delle carceri – e le chiamate costano, dai 12 cents fino 12 dollari al minuto, a seconda dello stato e della prigione. Il profitto di pochi si alimenta di un sistema perverso, che “vale” 1,2 miliardi di dollari l’anno: come ha osservato l’ex Garante dell’Authority per le Comunicazioni, Mignon Clyburn, i carcerati sono prevalentemente in condizioni economiche molto difficili; a causa del costo, non riescono a comunicare abbastanza con le loro famiglie e quando, usciti di prigione, cercano di reinserirsi sono ormai degli estranei, e spesso ritornano presto in prigione. Il costo per la società è molto più alto di quei profitti. In questo “spettacolare fallimento del libero mercato”, come lo definisce la Clyburn, l’idea iniziale di Ameelio era di una semplicità disarmante: da fuori si possono mandare con la app testi e foto, che vengono stampati e spediti per posta, gratuitamente, a chi sta dentro. Con la fionda di David all’assalto del potere delle compagnie telefoniche. Un’altra prospettiva sulle sfide che si parano davanti all’America di Biden, smaltita l’euforia per la vittoria elettorale.

Il viaggio a seguito del quale Alexis de Tocqueville scrisse il suo La democrazia in America (1835), la celebrata analisi del perché questa forma di governo avesse attecchito bene negli Stati Uniti e non in Europa, e dei rischi cui andava incontro, come il dispotismo della maggioranza e l’omogeneizzazione nel pensiero unico, fu intrapreso nel 1831 con l’amico Gustave de Beaumont. Il governo francese li aveva incaricati di capire come funzionava il sistema carcerario americano, ed infatti al loro ritorno scrissero insieme il rapporto Del sistema penitenziario negli Stati Uniti e della sua applicazione in Francia (1833). De Beaumont elaborò poi anch’egli le sue riflessioni sulla società americana più in generale, lui in forma di romanzo di critica sociale, Maria, ovvero della schiavitù negli Stati Uniti (1835). Anche se il romanzo ebbe un certo successo (la sua discendente, la ricercatrice Laurence Cossu-Beaumont, l’ha fatto ripubblicare pochi anni fa), la sua visibilità soprattutto sul piano sociologico venne oscurata da La democrazia e dalla maggior fama acquisita da Tocqueville. Ci fa comunque riflettere, 190 anni dopo, il fatto che i due osservatori francesi siano stati stimolati a cercare di capire la società americana, ed il problema centrale di chi ha voce in capitolo e chi non ce l’ha, dall’esigenza di un’analisi “tecnica” del sistema penitenziario. Che mantiene tuttora un ruolo centrale nella vita e nell’economia del paese, paese che trattiene nelle sue prigioni oltre 2,1 milioni di persone, lo 0,65% della popolazione. La percentuale più alta del mondo, più del Turkmenistan e del Rwanda. A confronto, i paesi europei, con percentuali sotto l’un per mille (in Italia il 0,09%), sembrano un altro pianeta, anche perché le restrizioni al diritto di voto dei carcerati e degli ex carcerati, pur essendo pesanti, lo sono meno che negli USA – dove si stima che i disenfranchised siano 6,1 milioni (in Italia, cento volte di meno).

In Israele, i circa 20.000 carcerati non sarebbero molti di più che in Europa, lo 0,23% della popolazione, ma l’anomalia è rappresentata dalla grande percentuale di “stranieri”, per lo più palestinesi dei territori occupati, circa cinquemila negli ultimi anni, molti dei quali in attesa di giudizio. Circa cinquencento sono solo accusati di essere stati pescati in Israele, senza permesso. Ma in numeri sono molto più alti se si considera il pregresso: secondo quanto dichiarato nel Primo Ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad nel 2012, dal 1967 circa 800.000 palestinesi, ovvero il 20% della popolazione, ed il 40% di quella maschile, avevano conosciuto le carceri israeliane. Si stima che il 70% delle famiglie abbia avuto almeno una persona in carcere. E i disenfranchised? Beh, qui non sono necessarie stime: il 100%. Il sistema di controllo sviluppatosi dopo la guerra dei Sei giorni, e ratificato dagli accordi di Oslo, toglie alla popolazione palestinese residente nei territori occupati ogni voce sull’entità politica che domina le loro vite – il governo dell’occupante – con la creazione di un’entità subordinata e sostanzialmente fittizia, l’Autonomia, che comunque non tiene elezioni da anni. Può darsi che, dopo un faticoso accordo fra Hamas e Fatah, se ne organizzino quest’anno. Non è chiaro l’eventuale parlamento eletto su cosa potrebbe legiferare, tanto meno governare. Nella popolazione prevale la rassegnazione – già prima di essere colpita dalla pandemia, il 35% era classificabile come clinicamente depressa.

Dei vicini-occupati-disenfranchised, nella campagna per le elezioni israeliane in programma il 23 Marzo, non sembra abbia voglia di parlare nessuno. Né il Partito Laburista né Meretz, preoccupati, per non perdere ancora elettori, di confermare le proprie credenziali sioniste. Ne aveva accennato il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai, prima di ritirare ignominiosamente la propria lista per carenza di consensi nei sondaggi. Quanto all’elettorato arabo israeliano, spinto anni fa dalla più alta soglia di sbarramento a sopprimere la diversità delle proprie voci e a convogliare i propri voti sulla lista araba “congiunta”, i cui 15 eletti sono stati efficacemente relegati in un ghetto parlamentare, incapaci di esercitare qualsiasi influenza, ora viene ulteriormente incapacitato, ma da un meccanismo inverso. In una brillante manovra al momento giusto, il primo ministro è riuscito, col miraggio di poter finalmente avere un dialogo col futuro esecutivo, a far disgiungere dalla lista congiunta la lista araba “unita” (così si chiama, con feroce autoironia, la scheggia reazionaria oggetto dell’adescamento di Netanyahu), facendo così disperdere i voti dei cittadini arabi, dirottandone alcuni su una lista che è probabile non passi la soglia di sbarramento; eliminandone altri, quelli di chi, depresso, rimarrà a casa; attirandone forse qualcuno in più al Likud. Non è chiaro quanto Netanyahu ed i suoi ascoltino davvero le voci di coloro che lo votano, ma anche assumendo che la rappresentino pienamente, si tratta di una minoranza, al massimo un quarto, di coloro che riesdono fra il Giordano ed il mare. Dividendo abilmente gli altri fra chi non ha il diritto di voto, chi lo ha ma è troppo depresso per esercitarlo, chi lo disperde, chi cerca pur detestandolo di collaborare col governo, chi cerca di spodestare Netanyahu imitandolo in versione più radicale, il sovranismo giudaico ha realizzato nell’unica democrazia del Medio Oriente il dispotismo della minoranza. Alexis de Tocqueville ne prenda nota.

Trieste e Tel Aviv