ROMPERE IL MURO DEL SILENZIO E DEL RIGETTO

di Rav Pierpaolo Pinchas Punturello

 

Comunità accoglienti. Progetti di “kiruv”, di avvicinamento di iscritti (o non iscritti) “lontani”. Attività per famiglie, giornate di studio, cene ed altre visioni educative o semplici attività ludiche hanno caratterizzato molte comunità ebraiche della Diaspora negli ultimi anni. L’obiettivo di tutto questo investimento? L’accoglienza delle diverse sfumature identitarie del mondo ebraico all’interno delle comunità. Un obiettivo che, dipendendo dalle stesse comunità, dalle nazioni alle quali facciamo riferimento, dalle organizzazioni ebraiche che sostengono i differenti progetti educativi, può avere limiti, pregiudizi o gesti rivoluzionari di grande accoglienza. Ma se, i progetti di “kiruv” hanno come punto di partenza l’idea della lotta alla assimilazione e lo scopo di avvicinare chi è lontano dalla propria identità ebraica, quando ci relazioniamo con il mondo  degli orientamenti sessuali, non sempre siamo di fronte ad una identità ebraica lontana de se stessa, ma a volte è la stessa comunità ebraica, vale a dire l’istituzione, che è lontana dalla capacità di gestire la diversità delle identità o delle vite degli ebrei che nella stessa comunità cercano il loro spazio espressivo religioso, culturale o semplicemente sociale.

Un documento del luglio del 2010, con firme importanti del mondo ebraico ortodosso del mondo di Israele e degli Stati Uniti, può essere un punto di partenza interessante per definire il cambio o il percorso di cambio e di riflessione rispetto al mondo omosessuale all’interno delle comunità ebraiche, delle yeshivot e di altri luoghi istituzionali ebraici. Il documento è la proposta di un gruppo di leader, rabbini, insegnanti di yeshiva nel contesto del movimento “modern orthodox”:  alcuni di loro insegnano in istituzioni come la Yeshiva University di New York.

I principi del documento sono:

  • L’halacha non proibisce nient’altro che gli atti omosessuali e non la tendenza o l’attrazione verso persone dello stesso sesso.
  • Per coloro che hanno una propensione omosessuale, c’è il diritto religioso di non sottoporsi alla terapia di conversione o di “riorientamento” se ritengono che sia infruttuosa e pericolosa, dal momento che la maggior parte dei medici e molti rabbini sostengono che queste terapie non funzionano e che hanno anche un potenziale pericoloso e dannoso.
  • Gli ebrei con tendenze omosessuali saranno accettati come membri di una comunità, di un bet haknesset e bet sefer e il rapporto con loro sarà lo stesso che con gli altri. Questo li obbliga a ricevere tutti i doveri stabiliti da questa partecipazione, compresi quelli di rispettare norme comunitarie o principi ebraici più ampi, che sono un corridoio di comportamento verso una osservanza halachica più formale.
  • Queste persone dovrebbero poter scegliere se vogliono essere aperte riguardo alle loro tendenze sessuali o scegliere che non siano rivelate senza il loro consenso.
  • L’ebraismo halachico non può legittimare matrimoni o cerimonie tra persone dello stesso sesso, ma le comunità devono mostrare sensibilità e accogliere calorosamente i figli biologici o adottivi di omosessuali attivi, sia nelle sinagoghe che nelle scuole. Sosteniamo genitori e parenti di ebrei gay a fare tutto il possibile per mantenere rapporti familiari armoniosi con i propri figli.
  • Gli ebrei con tendenze omosessuali non dovrebbero essere incoraggiati a sposarsi in quanto può causare gravi danni: amore non corrisposto, vergogna, disonestà e vite rovinate. Se una persona intende sposare qualcuno del sesso opposto, ha l’obbligo morale di parlargli del proprio orientamento sessuale.

Siamo di fronte da un documento del 2010. Un documento assolutamente non perfetto, ma un importante punto di partenza che tredici anni fa cominciò, formalmente, all’interno del mondo ebraico ortodosso, a porsi la domanda sulla accoglienza dei propri figli, membri comunitari, che avessero manifestato la propria identità omosessuale. Siamo di fronte ad un documento che oggi potrebbe indignare molti attivisti del movimento LGBTQ, un documento che ha molti limiti ma ha un grande pregio: l’aver posto l’obbligo di accoglienza dell’altro vincolato a una visione halachica, a un obbligo halachico. Dobbiamo comprendere che il vincolo tra accoglienza e rispetto halachico ha avuto e ha il grande pregio di silenziare polemiche o posture di rifiuto dell’altro in nome della Torà o della sua interpretazione. Una volta stabilito che l’altro, omosessuale che sia, ha una dignità personale e halachica che ci impone il rispetto verso di lui, vietando scuse o fughe tradizionali per non accogliere l’ebreo omosessuale all’interno dello spazio comunitario, almeno formalmente.

In altre parole, se da anni, da decenni, abbiamo svincolato l’osservanza delle mitzvot dalla partecipazione alla vita comunitaria, nel senso che non esiste un obbligo di osservanza religiosa per poter essere un membro attivo delle nostre comunità, lo stesso deve essere fatto e applicato verso l’ebreo o l’ebrea omosessuale. Rav Avraham Edelstein, già nel gennaio 2004, durante un congresso dell’organizzazione rabbinica israeliana Amiel, scriveva: “La nostra risposta in futuro dovrà definire se gli omosessuali rimarranno nella comunità ortodossa o si separeranno e fonderanno comunità indipendenti. Queste persone si sentono ortodosse ed è proibito rifiutarle. Il grande danno sarebbe se loro stessi fondassero delle comunità. C’è una differenza tra gruppi di sostegno e comunità separate, che sono completamente contrarie al concetto ebraico di comunità di Israele. Il primo passo è ricordare che il divieto è sull’azione e non sulla tendenza. Questa è la realtà, forse complicata, ma ciò non significa che per questo la comunità debba chiudere le proprie porte nei confronti degli omosessuali… Il riconoscimento della sua situazione e la sua appartenenza sono due cose che l’omosessuale religioso ci chiede, niente di più. L’omosessuale non ci chiede soluzioni halachiche, ma solo empatia e accettazione, e questo deve riceverlo non per carità ma perché è ebreo.”

L’accoglienza verso un ebreo non osservante non è una domanda della agenda rabbinica o della agenda comunitaria, perché l’ebreo  non osservante è un ebreo delle nostre comunità, lo stesso dovrebbe accadere rispetto a un ebreo che ha orientamenti sessuali differenti: non essere shomer shabat (osservante dello shabbat) ed essere omosessuale da un punto di vista halachico non comporta nessuna differenza, quella che è differente è la nostra percezione culturale e sociale delle due tipologie di “trasgressioni”.

A un non shomer shabat che entri, uno Shabbat mattina, in una qualsiasi sinagoga ortodossa nel mondo, e in Italia, non chiederemmo mai nulla sulla macchina parcheggiata nel garage più vicino al tempio, perché dovremmo chiedere una qualsiasi giustificazione halachica a un ragazzo omosessuale che chieda di salire a Sefer un qualsiasi Shabbat mattina in una qualsiasi sinagoga ortodossa?

“Compassione, simpatia, empatia, comprensione, questi sono elementi essenziali dell’ebraismo. Questo è ciò che gli ebrei omosessuali interessati al giudaismo ci chiedono oggi.” Queste parole non sono mie, ma sono del compianto Rav Sir Jonathan Sacks zl. Ed è questa la sfida più importante e più significativa con la quale dobbiamo confrontarci oggi. Stabilita l’accoglienza halachica, è ora di costruire una accoglienza sensibile e profonda, proprio perché non ci sono scuse halachiche alle quali, apparentemente, obbedire.

Simone Somekh nel luglio del 2019[1], commentando la tragedia del suicidio di un diciannovenne ebreo omosessuale sudafricano, riportò le ultime parole del ragazzo: “Cercare di fingere di essere qualcosa che non sono di fronte a voi sta diventando sempre più impegnativo di giorno in giorno perché non sono l’essere eterosessuale che rappresento per voi. Vorrei potervi dire tutto ragazzi e so che avreste capito, ma in fondo so che la nostra relazione sarebbe cambiata”. A venti anni di distanza dal documento dei rabbini ortodossi statunitensi comprendiamo che è giunto il momento di rompere i muri di silenzi sociali e culturali, dopo aver abbattuto le ipocrisie di una halacha respingente. E come possiamo rompere questi silenzi? Nell’unica maniera in cui il silenzio può essere rotto: parlando dell’argomento, discutendo dell’argomento, aprendo un sereno dibattito storico, halachico, psicologico, sociale sul tema. Domandandoci e domandando alle nostre comunità di organizzare momenti di studio sul tema dell’accoglienza dei diversi orientamenti sessuali all’interno delle nostre comunità. Per decenni abbiamo discusso dei matrimoni misti, delle conversioni dei figli minori, degli adulti maggiorenni, delle mogli, delle zie, dei cugini… è giunto il momento di chiederci cosa faremmo o cosa abbiamo fatto o non fatto rispetto ai nostri fratelli omosessuali. Potremmo (ri)scoprirci omofobi, potremmo scoprirci semplicemente poco informati, potremmo scoprirci indifferenti sul tema, ma assolutamente sensibili rispetto all’accoglienza del mondo LGBTQ. Non sapremo mai chi siamo e quanto siamo disponibili all’accoglienza fino a quando nel dibattito e nello studio della formazione rabbinica e delle realtà comunitarie il tema della sola e semplice esistenza del mondo LGBTQ non sarà uno degli elementi formativi della nostra esistenza. Scrive Simone Somekh che “un sondaggio condotto da Eshel tra 100 genitori ebrei ortodossi con figli LGBTQ nel 2016 ha suggerito che i rabbini comunitari sono le ultime risorse a cui i genitori cercano aiuto quando il loro figlio fa coming out. Questo, molto probabilmente, perché i rabbini – che possono essere inclini a dare consigli halakhici in materia – raramente hanno la conoscenza e l’esperienza pastorale necessarie per comprendere l’orientamento sessuale e l’identità di genere…”.

Siamo di fronte a un vuoto di informazione, di educazione, di sensibilità culturale che non accoglie, perché non conosce e di conseguenza silenzia il problema, lo relega ad altri luoghi di riflessione non ebraici, quando l’omosessuale ebreo dovrebbe trovare i primi luoghi di confronto all’interno delle sue stesse comunità. Dobbiamo ammettere che in un mondo in costante cambiamento e con costanti inviti alla riflessione anche rispetto alle istanze LGBTQ, siamo sempre più esposti a dichiarazioni pubbliche di personaggi più o meni celebri che con il loro coming out aiutano la costruzione di una differente visione rispetto al tema dell’omosessualità all’interno delle nostre comunità.

È triste pensare che la celebrità possa aiutare la costruzione di una nuova accoglienza, ma è una realtà che può favorire il cambiamento. In un altro contesto così commentava Hannah Arendt:  “Di fronte a un ebreo celebre, la società avrebbe dimenticato le sue leggi non scritte. Il potere fulgido della celebrità era una forza assolutamente reale…”[2]. L’ultimo celebre che ha aiutato il percorso LGBTQ all’interno del mondo ebraico tradizionalista è stato Yair Cherki, un giornalista religioso di Channel 12 di Israele, famoso per i suoi riccioli laterali e il suo comportamento allegro, mentre guidava i suoi spettatori nelle vite e nelle case della comunità haredi di Israele. Martedì 14 febbraio ha consegnato un  messaggio al suo pubblico: una straziante dichiarazione personale pubblicata su Facebook. “Amo i ragazzi. Amo i ragazzi e Kadosh Baruch Hu”, ha scritto Cherki. “Non è una contraddizione, e non è una novità”. Questo è un punto di partenza importante che dovremmo scrivere nel futuro delle nostre relazioni: essere omosessuali ed essere ebrei, nelle sue più diverse sfumature identitarie non è una contraddizione e non è una novità. A noi sta il dovere accettare la non contraddizione e non essere più ipocriti verso la non novità.

 

[1]https://forward.com/life/427319/orthodox-lgbtq-jews/

[2]  Arendt, Ritratto di un periodo ( ottobre 1943), cit.pp. 59-60