di Mattia Terracina
Se tre o quattro anni fa qualcuno mi avesse detto che quest’estate mi sarei trovato a vivere e dormire con quasi 4000 coetanei in una foresta nel nord di Israele non gli avrei sicuramente creduto; se mi avesse detto che avrei avuto la possibilità di passeggiare la notte per le dune del deserto del Negev, sfruttando la sola luce lunare l’avrei preso per pazzo; e altrettanto avrei fatto se mi avessero detto che avrei avuto la possibilità di incontrare e fare domande alla prima donna ufficiale di combattimento dell’esercito israeliano.
Ma il seminario in Israele, o machane le Israel 2023, organizzato dal primo movimento sionista al mondo, l’Hashomer Hatzair, per i 110 anni dalla sua fondazione (avvenuta nel lontano 1913), non è stato solo questo. Una tappa fondamentale per un diciassettenne ebreo della Diaspora. Perché non capita tutti i giorni, soprattutto per chi, come me e altri 79 italiani ebrei partiti da Roma, Milano, Torino, Firenze e Napoli, di trovarsi con così tante persone con cui condividere la propria fede, tradizione e identità ebraica, oltre che l’amore per un paese unico come Israele.
Prima della partenza è difficile prevedere ciò a cui si andrà incontro. Tre settimane di vita in un paese straniero, con molta gente nuova e sconosciuta, sono imprevedibili.
Immaginate di dover vivere quattro giorni nel bel mezzo di un bosco nel nord di Israele, al confine con il Libano, in compagnia di quasi quattromila giovani ebrei provenienti da tutto il mondo. Questa è stata la Shomria 2023, un evento speciale organizzato ogni dieci anni: un enorme campeggio nel bel mezzo della natura, costruito, con il solo uso di tendoni, legno e fil di ferro dai componenti del movimento. Ciascun paese, tra cui Francia, Austria, Belgio, Bulgaria e ovviamente Italia, con il proprio spiazzo, da curare e abbellire in autonomia, ma sempre aperto a chiunque volesse venire a trascorrere un po’ di tempo parlando o giocando a carte. Un enorme rave party verrebbe da pensare; no, un’occasione unica di scambio e confronto, gioco e discussione su temi importanti, con coetanei provenienti da comunità di tutto il mondo. Ciò che mi ha colpito, e su cui tengo particolarmente a concentrarmi, è la facilità e la spontaneità con cui, semplicemente passeggiando tra alberi e tendoni, si riuscisse ad incominciare a parlare e a fare amicizia con le persone. “Hello my friend, where are you from?” -“Ciao amico, da dove vieni”, questo era il classico incipit con cui, amichevolmente, iniziavano le conversazioni. Continuando a camminare per il vialetto sterrato principale, poteva capitare d’imbattersi in una partita di pallavolo, negli immancabili e infiniti balli ebraici (gente ballava instancabilmente già a partire dalle sei di mattina), o in un gruppo di sudamericani che giocavano a “telefono senza fili”. La sera si assisteva a gare tra talenti, si ballava musica techno israeliana, o si continuavano le discussioni iniziate durante il giorno con i nuovi amici appena conosciuti; la notte, dopo aver steso per terra il proprio tappetino, aperto il sacco a pelo e legato ad un filo tra due alberi le proprie scarpe (attenti agli scorpioni, ci avevano detto), ci si sdraiava sotto le stelle, per qualche ora di sonno e quiete. Ma la notte non era mai troppo lunga, e guai a tenere gli occhi chiusi quando all’alba incominciava ad alzarsi la musica di Omer Adam. Così iniziava una nuova giornata.
Quello di cui sono certo, è che questo viaggio mi abbia permesso di conoscere e vivere la società israeliana, tanto discussa e spesso male interpretata all’estero. Nei giorni antecedenti alla partenza, mi ricordo di aver letto su una rivista di geo-politica un interessante articolo sull’inevitabile necessità, per lo stato ebraico, di mantenere la leva militare obbligatoria, per entrambi i sessi. Subito mi era sorta alla mente una domanda: ci sarà, in un esercito forte e importante come quello israeliano, la parità tra i sessi, o le donne saranno vittime di disparità? Neanche a dirlo, ho avuto la possibilità di incontrare, in una conferenza nel kibbutz di Givat Ha’viva, una persona straordinaria: Efrat B., prima donna ufficiale di combattimento dell’IDF (Israel Defence Forces). Efrat, incinta al sesto mese all’epoca dell’incontro, ci ha raccontato la sua routine di tutti i giorni, vissuta perlopiù in una base militare segreta, oltre che le varie tappe che l’hanno portata a poter ricoprire una posizione così importante militarmente. “Non ho mai subito alcun tipo di discriminazione durante la mia esperienza nella Tzavà (esercito israeliano ndr), ma ovviamente è più difficile per una donna sopportare fisicamente le prove e i test a cui venivamo sottoposti, e inoltre una donna viene socialmente orientata verso una vita più casalinga e meno pericolosa; io però credo di essere l’esempio di come sia possibile essere al contempo una donna, una madre, ed un soldato al servizio del proprio paese.” La storia della vita di Efrat è solo una delle tante storie che ho avuto il piacere di ascoltare.
Ciascuna storia ha rappresentato per me un pezzo da aggregare al puzzle della società israeliana, che andavo completando con il passare dei giorni. L’impressione che ho avuto è quella di una società spaccata e frammentata al suo interno. Nonostante ciò, ho avuto la possibilità di visitare uno dei luoghi simbolo della convivenza tra arabi ed ebrei israeliani, quasi un miraggio nel deserto, il villaggio di Neve Shalom, o Wahat as Salam, a seconda che lo si voglia chiamare con il nome ebraico o arabo. Costruito su una collina a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv, fu fondato nel 1972 dal padre domenicano Bruno Hussar, ebreo divenuto cristiano. Un’oasi di pace e convivenza, in cui una comunità internazionale di famiglie ebree e palestinesi, tutte di cittadinanza israeliana, ha scelto di abitare e far studiare i propri figli insieme, dando vita ad un modello concreto di coesistenza alla pari. Neve Shalom non è affatto un’utopia, ma un vero esempio di accettazione reciproca, bilinguismo e dialogo interreligioso. Nella pratica, tutto ciò è reso possibile da un sistema educativo bilingue e binazionale, oltre che dalla Scuola per la Pace, che ho avuto il piacere di visitare, e che organizza corsi di educazione alla pace e gestione del conflitto. Insomma, la dimostrazione al mondo intero del fatto che la tanto discussa convivenza, seppure nel piccolo, è possibile.
A rendere ancora più interessante questo viaggio, ci hanno pensato le circostanze. Il periodo di tempo che ho trascorso in Israele è infatti coinciso con quelle settimane caratterizzate dal culmine dell’agitazione politico-sociale dovuta alla riforma giudiziaria portata avanti dal leader della politica israeliana, Bibi Netanyahu. Un sabato sera, non appena finito Shabbat, ho avuto l’opportunità di partecipare ad una di quelle manifestazioni antigovernative che vanno avanti da mesi. Era stata organizzata nei pressi di un semplice incrocio stradale non lontano da Caesarea. Mai più potrò scordare le emozioni provate allora, vedendo sventolare nelle mani di giovani e anziani, famiglie, universitari e soldati, migliaia di bandiere bianche e azzurre con il maghen-david, al tramonto; tutti, uniti da un solo e inequivocabile grido, una parola, una pretesa: “DEMOCRATIA!”. Una dimostrazione oltremodo pacifica, ma energica e rumorosa. Scorgevo negli occhi della gente gioia, orgoglio ma anche rabbia. Ciò che si percepiva era però un profondo messaggio d’amore, un amore viscerale che unisce gli israeliani alla propria patria, come fosse un figlio. Un qualcosa di unico, a mio avviso. Ci sentivamo in dovere anche noi, ebrei della diaspora e appartenenti ad un movimento sionista, di difendere la nostra seconda casa dall’ingiustizia e dal sopruso. E così, oramai in contatto con uno degli organizzatori, siamo tornati a quell’incrocio il lunedì seguente, a seguito dell’approvazione dell’emendamento sulla clausola di ragionevolezza. Il sabato successivo abbiamo invece manifestato a Be’er Sheva. E sono sicuro che avremmo continuato ogni settimana, se non fossimo dovuti tornare. In ogni caso, avevamo avuto modo di confrontarci con cittadini israeliani sull’attuale situazione politica, continuando a capire sempre un pochino meglio il paese in cui ci trovavamo, e proseguendo nel completamento di quel puzzle della società israeliana di cui parlavo.
Dopo aver lasciato Givat Ha’viva, ho avuto anche maniera di apprezzare le bellezze naturali e storiche di Israele: le sorgenti di Ein Gedi e il Mar Morto, poi Masada, visitata all’alba, nel silenzio, che rende tutto più speciale, ed il Negev, illuminato al chiaro di luna. Ultima tappa del seminario, Gerusalemme. Qui dormivamo in un piccolo villaggio giovanile cittadino, Chavar Hanoar Hatzioni, fondato nel 1949 da quaranta orfani sopravvissuti all’olocausto. I tre giorni passati a Gerusalemme si sono rivelati ancora una volta possibilità di dialogo tra giovani provenienti da diverse nazioni e contesti sociali. Particolarmente interessante ho trovato un incontro con un’ebrea ucraina, tale N. Bondarenko, aderente al movimento Hashomer Hatzair: il suo racconto è stato struggente. Senza più una casa e gran parte della famiglia, è stata costretta a emigrare in Israele, dove frequenta l’università. Nei giorni seguenti abbiamo visitato il Museo del Sionismo, sul monte Herzl, e poi lo Yad Vashem, intenso e straziante, dove ho potuto anche visitare il giardino dei Giusti, che ospita una lapide dedicata a Dalmiro e Verbena Costa, che salvarono la mia bis-nonna Nedelia durante la Shoah.
L’ultimo giorno, prima della partenza, abbiamo fatto il classico tour della città, passando per il quartiere arabo ed ebraico, fino al Kotel. Ciò che però ho trovato particolarmente significativo, è che a farci da guida fosse un uomo, sulla sessantina, milanese, che ai suoi tempi aveva fatto il nostro stesso seminario; nel tempo aveva poi deciso di trasferirsi in Israele, dove si è sposato e abita tuttora in un kibbutz nel nord. Qualche ora più tardi, eravamo già sul volo El-Al, diretti a Milano. Devo ammettere di aver cominciato a realizzare l’incredibile avventura che avevo appena vissuto quando l’aereo, ormai alzatosi in volo, sorvolava le bianche spiagge di Tel Aviv.
È stata un’esperienza unica nel suo genere e, forse irripetibile, che mi ha fatto crescere come persona e come ebreo appartenente ad una comunità della diaspora e che, sicuramente, mi ha permesso di accrescere la mia identità ebraica e sionista. Sarà difficile per me scordare lo Shemá pronunciato sussurrando, con i miei amici e coetanei da tutto il mondo, al muro del pianto, con il talled e i tefillin addosso. Sarà difficile scordarmi l’Hatikva cantata da più di mille ragazzi, di lingua e origini differenti, il giorno del saluto finale, in un giardino di Gerusalemme.