di Rimmon Lavi
Incontri o scontri
Il pogrom spaventoso del 7 Ottobre mi ha sconvolto, oltre che per la sua atrocità umana, anche perché mette in dubbio la meta stessa del sionismo di creare in Israele per gli ebrei un rifugio sicuro dalle persecuzioni. E la massiccia e prolungata azione militare israeliana di ritorsione , per non dire vendetta, ha avuto per ora risultati spaventosi, anzitutto per la popolazione locale a Gaza (33 mila morti, feriti innumerevoli, fame e distruzioni massive, quasi 2 milioni di sfollati senza tetto, senza del resto aver eliminato Hamas), per i 133 ostaggi ancora detenuti e le loro famiglie, per i 600 soldati caduti finora e le loro famiglie e per i quasi 200 mila sfollati israeliani dalle frontiere a sud e a nord. Il sostegno internazionale quasi generale dopo il pogrom si è invece tramutato in riprovazione e condanna verso il blocco degli aiuti umanitari. Israele si trova ora isolata e tacciata dei peggiori crimini di guerra e gli ebrei in tutto il mondo stanno vivendo un grave rigurgito antisemita. Assistiamo all’assurda coalizione tra la destra xenofoba e razzista, la sinistra anticolonialista (inclusi molti intellettuali ebrei antisionisti) che difende tutte le minoranze eccetto gli ebrei e tutti i musulmani, anche moderati, uniti adesso ai fanatici islamisti che promuovono il Jihad, la guerra santa contro tutti gli infedeli.
Da sei mesi, in Israele, siamo esposti quasi soltanto a ciò che è successo il 7 ottobre finché il pogrom è stato bloccato, all’eroismo dei nostri soldati e al dolore delle famiglie dei caduti e degli ostaggi. Nulla quasi si sa di cosa veramente succede a Gaza, anzi, si continua a dire che non c’è vero problema umanitario, rinnegando la fame e accusando Hamas di esserne responsabile. Specularmente, da parte palestinese e dei loro sostenitori, si è esposti soltanto alle estese distruzioni a Gaza, alle decine di migliaia di morti, alla fame, alla mancanza d’acqua potabile, elettricità, benzina e farmaci e all’eroismo della resistenza.
In Israele le nuove generazioni possono riferirsi al terribile pogrom del 7 ottobre come una nuova Shoà, influenzati anche dai demagoghi populisti che non perdono l’occasione per cercare di coprire il loro fallimento sia nel non essere riusciti a evitarlo, sia nel dirigere l’assurda azione militare a Gaza. Per me la Shoà non è solo peggio di un pogrom: è lezione universale ultimativa contro il razzismo, la xenofobia, la discriminazione delle minoranze (degli ebrei in particolare) e il totalitarismo; ma anche contro il silenzio complice delle maggioranze benpensanti. E certo non posso credere che un tale orrore possa essere stato parte di un piano divino, anche se incompreso, o punizione per colpe “umane”, o trasgressioni, per quanto gravi potessero essere (come aveva detto a suo tempo il Rabbino Ovadia Yosef). Simili “spiegazioni” dilagano in Israele anche per il 7 ottobre, dato che molte delle vittime del pogrom e degli ostaggi erano attivisti per la pace nei kibbutzim di “sinistra”‘ parzialmente distrutti.
Certo la Shoà è stata anche la tragica leva che rese possibile la rinascita ebraica, la creazione dello stato e le grandi ondate d’immigrazione. Molti, seguendo i politici israeliani, da Ben-Gurion in poi fino all’estremo di Netanyahu, sfruttano purtroppo il ricordo della Shoà come legittimazione per qualsiasi azione del governo israeliano, inteso ad assicurare la sicurezza e la promozione del progetto sionista, anche espandendolo su tutta la Terra Santa.
Questo sta succedendo anche riguardo al 7 ottobre, che certo non può essere giustificato, come naturalmente la Shoà, ma l’indulgenza per le azioni di Israele pare stia scomparendo nel mondo, persino tra gli ebrei, soprattutto nelle generazioni più giovani: queste, lontane dalla Shoà, reagiscono negativamente allo sfruttamento del suo ricordo e il 7 ottobre viene da molti, fuori da Israele, classificato istintivamente quale nuovo utilizzo mediatico da parte di chi non può essere considerato vittima indifesa, data la forza militare illimitata messa in campo a Gaza in questi 6 mesi.
Ma in Israele molti vedono anche nel 7 ottobre e nella guerra attuale, parte del progetto messianico. In gita sui monti sopra Eilat abbiamo incontrato una giovane coppia religiosa, da poco sposati, lui studente in una Yeshivà, riservista in licenza breve tra la caccia a Hamas a Gaza nel sud e l’eventuale guerra aperta contro Hezbollah sulla frontiera nord col Libano, lei studentessa del corso da infermiera. Ci hanno salvati, noi quasi ottantenni e senza pila, nella scoscesa discesa sassosa, purtroppo già immersa nel buio fondo. In seguito li abbiamo incontrati a Gerusalemme per ringraziarli: simpaticissimi, malgrado la scoperta di essere, noi e loro, proprio all’opposto ideologico. Noi, cresciuti in piccole famiglie laiche, liberali, democratici, attivisti per l’eguaglianza di tutti i cittadini all’interno d’Israele e per la pace con i palestinesi. Loro, cresciuti in famiglie numerose, nazional-religiosi, alunni di scuole premilitari (note come estremiste e da cui provengono sempre più numerosi ufficiali dell’esercito), amici e ammiratori dei coloni di Itamar (una delle colonie più bellicose della Samaria, nel nord della Cisgiordania). Sono seguaci del Rabbino Zvi Yehuda Kook, padre spirituale del movimento messianico Gush Emunim, che ha colonizzato i territori occupati dal 1967, e punto di riferimento sia del partito del ministro del Tesoro, Bezalel Smotrich, erede dei Bené Akiva, ma adesso ortodossi-nazionalisti, sia del partito Forza Ebraica del ministro della sicurezza nazionale (Polizia e Guardia Nazionale), Itamar Ben Gvir, erede del razzista dichiarato Meir Kahane.
Molto gentilmente, ma stupiti del mio attivismo per la pace e per la parità di diritti civili agli arabi in Israele e a Gerusalemme est, mi hanno chiesto delle ragioni della mia Aliyà dall’Italia in Israele, nel lontano 1966. Ho spiegato che per tutti noi ebrei e per me, i cui nonni e zio furono deportati e gassati ad Auschwitz pochi mesi dopo la mia nascita, le radici del sionismo di allora erano nella Shoà e nell’antifascismo, in cui sono cresciuto.
Molti ebrei italiani, come mia madre, anche prima delle leggi della razza del 1938, avevano trovato nel sionismo espressione “legittima” dell’emancipazione liberale e democratica degli ebrei nell’800 e dell’egualitarismo socialista degli inizi del ‘900.
Per loro, ripeto, carissimi e ottime persone, i valori umanistici di cui noi, laici, crediamo di ritrovare le radici nella Bibbia e nel Talmud (penso per esempio anche solo al “non fare al prossimo tuo quello che non vorresti fosse fatto a te” che in varie forme appare dalla Bibbia ai Profeti fino a Hillel il Vecchio) sono validi solo tra gli ebrei. E Israele non è solo la patria in cui abbiamo creato o ricreato la nostra indipendenza nazionale e il rifugio dalle persecuzioni e dalle discriminazioni millenarie, ma è soprattutto l’espressione dell’aspirazione alla Gheulà (redenzione dell’anima) e al Messia. Ogni azione e ogni evento viene interpretato come passo avanti verso la meta sognata, se “positivo” come segno propizio, se “negativo” come inevitabili e promotrici “havlé mashiah” (doglie del Messia). Democrazia, uguaglianza, giustizia sociale sono solo strumenti interni al popolo ebraico, se servono per promuovere il regno del Signore, e i laici padri del Sionismo sono stati, e noi forse siamo ancora “l’asino del Messia”, buonisti, “yefé nefesh”, illusi e menati per il naso (a meno che la guerra civile che prevede lo storico Shaul Arieli non ci trasformi in nemici o traditori).
Anche io amo la Terra d’Israele e i suoi paesaggi, inclusi quelli ancora biblici della Samaria e della Giudea, ma ci vedo non solo natura e rimembranze storiche e archeologiche, ma anche due milioni e mezzo di palestinesi sotto occupazione militare che vorrebbero lo stesso risorgimento nazionale già ottenuto da noi ebrei (purtroppo come da noi sempre più propensi al fanatismo, inclusi i terroristi). Coloro, invece, che aspettano il Messia, come i nostri nuovi amici, semplicemente non vedono la popolazione occupata e propongono ai palestinesi, inclusa la minoranza araba in Israele, di accettare la sottomissione alla sovranità etnocentrica ebraica, o di evacuare volontariamente la Terra Promessa, che appartiene solo al popolo ebraico, o di essere trattati come minacce allo Stato d’Israele: questo è il piano proposto da Smotrich per annettere i territori occupati, la Cisgiordania, e dai suoi seguaci anche per la striscia di Gaza, rioccupata in questi ultimi sei mesi, che vorrebbero ricolonizzare, espellendo gli altri 2 milioni e mezzo di palestinesi, per lo più profughi già dal 1948.
Questa era, credo, la speranza inconscia, probabilmente non formulata come meta di un piano strategico della guerra attuale (che non è diretta da nessun piano): i generali che fallirono il 7 ottobre credevano che Hamas si sarebbe arresa di fronte alle 4 divisioni corazzate e all’aviazione onnipotente messe in campo nella piccola ma densamente popolata striscia di Gaza e che la popolazione cacciata al sud, forzasse la frontiera con l’Egitto, diventando nel Sinai problema internazionale, invece d’essere di responsabilità unicamente israeliana.
Siamo dunque noi ebrei assieme ai palestinesi impantanati nel fango misto al sangue, sia in Israele, sia nel Medio Oriente, sia nel mondo occidentale: fango e sabbia e detriti di costruzioni a Gaza, ma anche fanatismo religioso, antisemitismo, etnocentrismo, razzismo, sovranismo nazionalista che sembrano rendere impossibile ogni via d’uscita.
Gerusalemme 11/4/2024