Silenzio e rimozione

di Francesca Gorgoni

 

Come anelli di una stessa catena

Francesca Gorgoni Ebstein vive a Gerusalemme. Si occupa di poesia, traduzione e trasmissione del sapere dal mondo antico al mondo medievale di lingua araba, ebraica e latina. Insegna filosofia ebraica medievale all’Università Bar-Ilan e da qualche anno collabora con la rivista Smerilliana, luogo di civiltà poetiche.

 Il massacro del 7 ottobre e la guerra a Gaza che ne è conseguita ha intensificato il processo di disumanizzazione dell’altro già in atto da decenni. La crisi etica in cui verte Israele oggi impone di fermare questo processo. Solo atti di parresia (diritto-dovere di dire la verità) potranno spezzare il silenzio attorno ai nodi fondamentali del conflitto permettendo di affrontarli e dare speranza alla pace. Tanto in Israele quanto nella diaspora.

C’è un aspetto sensoriale del nostro vivere umano, fatto di relazioni quotidiane, espressioni del volto, luoghi e atmosfere, che costituisce quella grande biblioteca di difficile lettura e ancor più difficile comunicabilità che è il quotidiano.  Questa lunga guerra che è senza precedenti nella storia del conflitto israelo-palestinese, per distruzione, crudeltà, lunghezza nel tempo, ha portato alla luce le gravi tensioni interne alla società israeliana che oggi si trova frammentata in tanti piccoli pezzi, ognuno dei quali impaurito e incapace di parlare all’altro di ciò che le sta accadendo. Il discorso pubblico è sempre più vuoto. Gli scambi quotidiani, con rarissime eccezioni, sono un repertorio di discorsi di circostanza, legati alla superficie delle cose o che vi girano attorno, circospetti e intimoriti di toccare i nodi veri. Un esempio eclatante è l’assenza di discorso pubblico sul transfer proposto da Trump. Le uniche reazioni si dividono tra frange di sostenitori che si fregiano della capacità di saper pensare “out of the box”, e articoli di giornale dall’approccio statistico sulla percentuale di israeliani a favore o contro la proposta americana. La voce degli intellettuali mormora, l’opposizione balbetta, la società civile tace.  

I pochi che sentono il bisogno autentico di parlare fanno esperienza di un fenomeno molto particolare: un muro di silenzio. Non nella piazza delle manifestazioni, o nei pochissimi contesti privati e pubblici in cui “parlare di ciò che ci sta accadendo” è ammesso ma nello spazio pubblico dei luoghi di lavoro, delle occasioni sociali casuali o mondane non legate ai movimenti di protesta, il bon-ton è tacere, non parlare. Chi volesse indagare in senso critico ciò che vede, ciò che lo turba e lo lacera come cittadino, vedrebbe l’altro ritirarsi dietro un muro di silenzio laconico, vago, impaurito e pronto a far cadere nel vuoto ogni tentativo di nominare la realtà. Al bisogno di parlare è sottratta legittimità attraverso la messa al bando della parola che coincide con la messa al bando del volto dell’altro. Quello che emerge sul volto dell’altro è il terrore che si nominino le parole bandite dallo spazio pubblico: i morti di Gaza, l’uso dell’AI nei bombardamenti, occupazione, transfer, e poi la parola proibita per eccellenza in questo momento: pace e tutto quel che sarebbe necessario per realizzarla. La sfera semantica del rapporto con l’altro e delle ragioni dell’altro è spazzata via e sostituita da cose su cui non possono che essere d’accordo tutti: il trauma del 7 ottobre, gli ostaggi, il senso di mancanza di futuro – cosa ormai endemica e veleno nocivo del quotidiano dominato da una grave precarietà e incertezza sul domani. La percezione profondamente precaria dell’esistere in Israele oggi è stata espressa da Benny Gantz che, durante una recente riunione alla Knesset, tentando invano di trovare toni più concilianti tra le famiglie degli ostaggi umiliate e avvilite dalla volgarità di Itamar Ben Gvir e dei pochi parlamentari presenti in sala, ha detto  “Per favore, calma, dobbiamo rimanere uniti, perché solo rimanendo uniti potremo garantire a Israele di poter esistere per ancora molti e molti anni a venire”. Credo che in nessun paese europeo si sia mai ragionato sull’esistenza dello Stato nei termini di anni a venire. Un sentimento precedente al 7 ottobre ma che questa guerra ha definitivamente esasperato e che, se letta bene, ci dà una chiave di lettura importante per capire su cosa poggia la narrazione collettiva che rende comprensibile la reazione militare del governo su Gaza.

Più si tace e più si corre verso l’indicibile punto di non ritorno a cui la società israeliana si è condannata. Moshe Halbertal in una conferenza pubblica dedicata al futuro dell’ebraismo, tenutasi all’Istituto Van Leer di Gerusalemme nel gennaio del 2024, ha interpretato la situazione politica israeliana come in preda a forze che stanno spingendo la società al di fuori da sé stessa:  “questo governo è il segno di ciò che ci accade, l’esilio di Israele per mano di Israele”. La politica dello stato di Israele ha creato l’esilio di Israele dai suoi valori etici fondamentali. Su questo tema si era espresso negli anni trenta anche Martin Buber che sosteneva che uno Stato nazionale privato della cultura ebraica del galut era destinato a morire, ed è in questi termini, a partire da Buber, che Giorgio Agamben sviluppa la riflessione sulla guerra a Gaza e la fine del giudaismo. Su questo tema tornerà anche Rav Daniel Epstein di cui traduciamo in questo articolo il discorso tenuto ad agosto 2024, all’uscita dello shabbat, in una piazza di Gerusalemme.   

Indicibilità, silenzio, rimozione dell’altro (interessante in questo senso il coincidere quasi dei termini transfer e il termine transfert come concetto psicoanalitico) non possono che alimentare la mancanza di futuro, dominante oggi nel quotidiano israeliano. Si nutrono l’uno con l’altro, alimentati da una politica abituata a mentire e ad avvelenare il discorso pubblico. La mancanza di futuro che pervade le strade, esito inevitabile della guerra, è esasperata dalla censura collettiva, applicata a se stessi e agli altri, in cui vige l’assoluta sconvenienza del parlare delle uniche cose vere alla radice dei mali che ci attraversano.

Ancora oggi, come dopo il 7 ottobre, le ferite della guerra sono tali e così profonde che il dato sensibile logico e semplice che il 7 ottobre “non è avvenuto in un vuoto” – senza implicare con ciò nulla se non che è urgente cambiare direzione – è in Israele indicibile.

Sottrarre le parole significa sottrarre futuro e uccidere la speranza. Sottrarre cambiamento e trasformazione significa impedire alla realtà di muoversi e cristallizzare lo sguardo su un presente muto e immobile.

Vorrei raccontare una storia che descrive bene l’esperienza del silenzio di questi ultimi mesi. Era qualche mese fa, incontravo qualcuno con cui in questi mesi è capitato di aprire il discorso sui danni profondi che questa guerra sta causando. Un uomo pio, osservante, un uomo di fede e che si pone domande. Anche lui, come molti, ha figli. Due dei più grandi servono come riservisti nell’esercito israeliano. Al tempo in cui parlavamo erano soldati a Gaza, e forse nelle prossime settimane vi torneranno. La conversazione ruotava attorno al sentimento di impotenza di questo periodo, della difficoltà di vedere una via d’uscita in questo orizzonte fosco, nella paura che non ci sia un domani. Che questo senso di oppressione derivi dalla guerra è stato detto da me due volte, così come il riferimento al dolore per la morte che ci circonda, “la morte dei soldati così come quelle delle persone inermi dall’altra parte” aggiungo io lanciando un amo. Nulla. La risposta è un sospiro e spalle strette. Parlo di quanto mi addolori vedere ragazzi appena ventenni andare e tornare sempre più trasfigurati. Nulla. La risposta è un sospiro, silenzio spalle strette, e sorriso nervoso. Quando si tocca il tema del servizio militare in Israele le persone fanno quadrato, ci sono troppi elementi emotivi che impediscono di criticare l’IDF. Specie se hai figli a Gaza e sei terrorizzato di non vederli tornare, non riesci a guardare lo scempio, devi trovare delle buone ragioni che sostengano l’attesa e permettano di vivere giorno dopo giorno con un figlio al fronte. La conversazione si chiuse così come era iniziata, incipiente, aperta con ancora tutto da dire, con nulla di nominato e un senso di lutto.

E intanto, alti ranghi dell’esercito esprimono il loro dissenso sulla continuazione della guerra. E intanto muoiono migliaia di bambine e di bambini, che certo non possono – se non altro da un punto di vista logico – rientrare nell’idea che “tanto sono tutti in qualche modo legati ad Hamas”.

Sottrazione di parola, ricatto emotivo e contraddizioni profonde.

Poiché ciò che accade in Israele ormai ha una cassa di risonanza in tutta la diaspora, anche le comunità ebraiche italiane ed europee sono avvolte da una quasi totale mancanza di coraggio e appiattimento su una politica di difesa dei ranghi, in un momento in cui invece Israele andrebbe difeso dalle istanze interne che hanno prodotto questo governo che sta distruggendo il paese. Quasi, ed è importante sottolineare il quasi, perché in America 350 fra rabbini, attivisti e artisti hanno appena firmato un manifesto uscito sul New York Times contro la pulizia etnica in corso a Gaza, e speriamo sia solo la prima ondata di sdegno a provenire dal mondo ebraico – anche ortodosso.

Come notava Noemi Issam-Benchimol in un articolo del 2 ottobre 2024, ciò di cui si ha bisogno oggi sono atti di parresia nel modo in cui questa era considerata dai filosofi antichi. Alla lettera “dire la verità”, la parresia era un pilastro della retorica antica ed è al cuore delle indagini di Michel Foucault sulle possibilità dell’intervento del singolo sul mondo che lo circonda (si vedano le lezioni date al Collège de France fra il 1982 e il 1984 raccolte nei due saggi Il coraggio della verità e Il governo di sé e degli altri). Il cittadino che si fa carico del compito di dire-il-vero espone se stesso al rischio di parlare onestamente contro ogni convenienza politica e sociale. Solo il suo dire coraggioso lo mette in grado di intervenire politicamente nella sfera pubblica, di lacerare la sfera del silenzio, al fine di ristabilire la giustizia, e assumersi quella responsabilità politica che ha in relazione alla comunità in cui vive. Dire-il-vero ha così una portata politica rivoluzionaria. Implica un processo trasformativo individuale e collettivo: inizia con il riconoscimento delle responsabilità individuali e rende necessario uscire dall’ombra assumendo un ruolo attivo nel mondo in cui si vive. 

È offrendo al lettore un atto di parresia pubblica che vorremmo concludere: la traduzione del discorso pronunciato da Rav Daniel Epstein nell’agosto del 2024 in una delle manifestazioni tenutesi a Gerusalemme in favore del ritorno degli ostaggi. Rav Daniel Epstein, già studioso di Emmanuel Levinas e insegnante di pensiero ebraico in diverse istituzioni di Gerusalemme, fra le quali la nota e autorevole midrasha Matan. Rav Daniel Epstein, ad oggi, è una delle poche autorità rabbiniche e spirituali in Israele ad essersi espresso pubblicamente sul dramma etico che vive Israele dall’inizio della guerra. Le sue parole dovrebbero stimolare tutti noi, in Israele e nella diaspora, a compiere atti di parresia, perché solo pronunciando le parole proibite si potrà dare inizio al percorso di cura, riaccendere la speranza e aprire il varco verso un futuro possibile.

Rav Daniel Epstein, Gerusalemme 3.08.2024:

“Shavua tov cari fratelli e sorelle, uniti in questa giusta lotta che non ha eguali, la lotta per il ritorno immediato degli ostaggi, e la lotta affinché l’integrità nel nostro paese sia subito ripristinata. Fra qualche giorno, ebrei in ogni parte del mondo si siederanno a terra e leggeranno il libro di Echà, un lamento sulla distruzione: Echà yashvah. La prima parola “echà” è una domanda: “come mai” chiede il profeta a sé stesso, al popolo, a Dio e alle generazioni future. “Echà? come è accaduto? Come è mai potuto accadere?”. Il profeta non pone questa domanda agli storici ma la pone a noi, e noi dobbiamo chiedere a noi stessi non solo come è potuto accadere allora ma anche cosa ci accade oggi.  Non solo cosa è accaduto il 7 ottobre ma anche cosa è accaduto lungo questi fin troppo lunghi mesi, giorno dopo giorno. Come mai siamo diventati ciò che siamo oggi? Come abbiamo potuto dimenticare ciò che un tempo era chiaro come la luce del sole: il sacro valore della vita, fin dai tempi della creazione dell’uomo creato a immagine e somiglianza del Dio vivente e che comanda di santificare la vita. Come abbiamo potuto dimenticare quello che è scritto nei Proverbi e menzionato ne Le massime dei padri: “Della morte del nemico, non ti rallegrare, e quand’è rovesciato, il cuor tuo non ne gioisca” (Proverbi, 24:17). Un tempo sapevamo tutto questo. Un tempo sapevamo. Era molto tempo fa.

Quando si tenne a Gerusalemme il processo di Eichmann, un assassino, a nessuno venne in mente di fargli del male. Ha goduto di un regolare processo e di protezione, e, immaginate, fu addirittura difficile trovare un boia che eseguisse la pena. La corte di giustizia stabilì, accadeva allora, che forme di tortura erano ammesse solo [per trarre informazioni] nel caso di un atto terroristico programmato e imminente e che, solo in questo caso, era possibile esercitare [sul corpo del detenuto] una moderata pressione fisica.

Come siamo arrivati al punto che le stesse forze armate (IDF) si interrogano sulla natura di atti terribili che ricordano quelli compiuti durante la distruzione di quella città nota per la sua malvagità di cui narra il libro di Genesi? Come è possibile?

Ci sono molti modi per rispondere a questa domanda. La risposta più immediata e semplice indica fra i primi sospetti coloro che si sono macchiati di questi crimini, coloro ritenuti responsabili di sviare i soldati, coloro che impartiscono gli ordini, coloro che dovrebbero far rispettare ai soldati la legge, i responsabili dei responsabili di coloro che impartiscono gli ordini.  È chiaro a chi ci si riferisce, tutti costoro devono essere giudicati ma non possiamo renderci le cose facili e risolvere tutto gridando “vergogna”.

Io devo rivolgere questa domanda a ognuna e ognuno di noi, perché altrimenti continueremo a sprofondare nel baratro nel quale ci stanno trascinando, non solo dal punto di vista economico e della sicurezza ma soprattutto dal punto di visto etico.

Perché in ballo c’è la discesa nel baratro. Perché per commettere una cosa simile [la guerra a Gaza] o altri tipi di azioni terribili simili a questa, occorre una lunga preparazione, occorrono molti anni di disumanizzazione, di cancellazione del volto dell’altro, e tutto questo non è cominciato ieri.

Subito dopo la guerra dei sei giorni, venni in Israele per Shavuot. Mi trovai fra la folla che si recava per la preghiera al muro del pianto. Percepii l’estasi, quell’euforia mi spezzò il cuore. Ebbi paura dell’euforia che deriva dal senso di vittoria. Quando tornai in Francia, scrissi e pubblicai un articolo dal titolo “L’espressione della violenza”. Nessuno venne a complimentarsi. Il mio articolo era indirizzato al kotel, alle pietre del muro del pianto, e su queste era scritto “fate attenzione! Mai venire nei pressi del Tempio ebbri di vino, di vittoria, e neppure di una vittoria immaginaria che non fa che mentire e mentire. L’uso della forza, anche quando è necessaria e legittima, la forza stessa, mente. Per molti anni ci ha fatto molto comodo non vedere cosa accadeva laggiù, dietro le colline in ombra, così lontano eppure così vicino, e oggi quella stessa violenza che è frutto di una legge che non conosce limiti, si sta abbattendo qui, è qui fra noi, e noi semplici cittadini abbiamo il dovere di opporci, di dire no, no e poi no. Prima di tutto per noi stessi, per i nostri figli, perché abbiamo una responsabilità individuale, ed è per questo che settimana dopo settimana, abbiamo il dovere di dare inizio, adesso! dopo la disumanizzazione del massacro e la disumanizzazione che la guerra produce, abbiamo il dovere di dare inizio a un processo di riumanizzazione.

Come inizio di questo processo di riumanizzazione vorrei leggervi le parole di Etty Hillesum, assassinata ad Auschwitz nel 1943. Ascoltate bene queste parole che Etty Hillesum disse a un amico, prima della deportazione ad Auschwitz, quando era ancora nel centro di smistamento in Olanda. Quando il suo amico le disse “che muoiano tutti questi tedeschi, che vengano sbranati questi criminali assassini, che vadano all’inferno” lei rispose “no! no! l’odio non è la soluzione. Abbiamo così tante cose da cambiare in noi stessi che non abbiamo il tempo di odiare coloro che vengono chiamati “nemici”. È bene che comprendiamo che ogni qualvolta spargiamo il seme dell’odio nel mondo, rendiamo questo un luogo inadatto alla vita umana. Spero che sia chiaro a noi tutti che tutta l’umanità sta soffrendo con noi, anche coloro che chiamiamo “nemici”. Siamo tutti anelli di una stessa catena, un volto unico dei molti volti disseminati sulla faccia della terra.”

E io vi chiedo: saremo noi capaci di ascoltare Etty Hillesum? Saremo capaci di fare tutto ciò che è in nostro potere per sentirci parte di una stessa una catena? Questo [della piazza] è il luogo e questo è il momento.”

Gerusalemme, 13/02/2025