di Franco Segre
Nel villaggio montano di Engelberg, dove siamo giunti, risiede in libertà il rabbino svizzero Zimmerman, che abita in un alloggio non lontano dalle case dove stanno i rifugiati. Si interessa spesso di noi, in assenza di altri ebrei residenti, e ha una particolare attenzione verso i bambini ebrei, ai quali impartisce i primi insegnamenti. Conservo con riguardo ed affezione il sillabario con la copertina rossa, in cui sono stampate in risalto le sillabe ebraiche da leggere e riconoscere: me, mu, mi. Rispetto ad altri bambini la cui lettura è lenta e stentata mi trovo in situazione di favore per via degli insegnamenti impartiti da papà e mamma. Nello spiegarci le principali benedizioni spicca la pronuncia ashkenazita del Rav: per esempio sul pane recita “ammautzì lechem min ooretz”; ma con me ha il riguardo di far uso della pronuncia all’italiana.
Nella tarda primavera arriva l’epidemia di scarlattina. La mamma è preoccupata per i bambini infettati, che vengono presi e portati via nel tentativo di arrestare la propagazione del morbo: tutti i giorni mi controlla più volte la pelle del corpo per verificare che non compaiano arrossamenti sintomatici. Sforzo inutile! Ben presto me la sono beccata! All’esame medico viene scoperta la malattia, che determina il conseguente isolamento e, con grande angoscia ed ansia di papà e mamma, la mia partenza verso l’ospedale di Lucerna. Per consolarmi per l’allontanamento, privo di persone conosciute, mi viene promessa una pronta guarigione, ma nel viaggio sono ammutolito e non riconosco nessuno. Sono triste e sconsolato!
All’arrivo in ospedale sono depositato nel reparto degli infettati, in una camera a due letti, accolto da un’infermiera che sa parlare solo il tedesco. Anche il mio vicino di letto, un ragazzo un po’ più vecchio di me, non capisce l’italiano: è un bel guaio! Per mia successiva fortuna ci sarà un’altra infermiera che riuscirà a parlare il francese; per ora mi esprimo a gesti. Il cibo è più abbondante di quello fornito a Engelberg. Con un mazzo di carte a disposizione dei pazienti insegno al mio vicino a giocare a rubamazzetto. Così il tempo passa.
Tra i testi di lettura in tedesco a disposizione dei pazienti c’è una rivista munita di un dizionarietto dal tedesco al francese. Riesco così a consultarla per imparare i vocaboli più comuni che mi servono per esprimermi e per capire i discorsi altrui. Per questa utile iniziativa, compiuta all’età di soli sei anni, riceverò poi i complimenti di tutti.
In tal modo ottengo la confidenza di un’altra infermiera che conosce il francese e mi sarà di aiuto per tutta la permanenza all’ospedale.
La mia forma di scarlattina non è grave e presto raggiungo la convalescenza. Ma il rigoroso isolamento dei reparti infettivi dell’ospedale non impedisce che io sia nuovamente contagiato: “Tu hai una nuova malattia …”, mi dice in francese l’infermiera amica nel comunicarmi che il nuovo morbo si chiama “varicelle”. Non è grave e pericoloso, ma mi impedisce di uscire dall’ospedale insieme ad altri compagni di camera o di reparto ormai guariti. Ascolto sovente al telefono il papà e la mamma, ma il desiderio di rivederli e di abbracciarli aumenta la mia tristezza.
Ormai Pasqua è vicina. Ricevo allora dai genitori un misterioso pacco, contenente azzime e altri cibi non lievitati, che conservo accuratamente, suscitando l’invidia di altri ricoverati. Verrò poi a sapere che proviene dal rabbino Zimmerman di Engelberg, che ne aveva parlato con il mio papà dicendogli in italiano: “Io spedire a Franco poche azzime e cibi kasher. Simbolo!!”. La sua generosità e il suo ricordo continuano a commuovermi!