Intervista a cura di Bruna Laudi

Attività scientifica

Le ricerche di Susanna Terracini si situano alla frontiera fra la Matematica pura e quella applicata, e riguardano le applicazioni dell’analisi non lineare in problemi della Meccanica Celeste e della Dinamica delle Popolazioni. È Professoressa ordinaria di analisi matematica presso il Dipartimento di Matematica “Giuseppe Peano” di Torino

È stata l’unica docente che, il 19 marzo, ha votato contro la mozione approvata dal Senato Accademico dell’Università degli Studi di Torino: “Visto il perdurare dello stato di guerra si ritiene non opportuna la partecipazione al bando MAECI 2024 Italia-Israele”. L’Università di Torino è stato il primo ateneo italiano a esprimersi e a votare in questo senso, seguito poi da altri.

Improvvisamente Susanna è diventata famosa, oggetto di interviste in giornali e TV, ospite di trasmissioni e di dibattiti organizzati anche da associazioni ebraiche, come quello del 3 aprile che si è svolto a Torino via zoom.

Quali sono i tuoi rapporti con il mondo ebraico?

I miei rapporti con il mondo ebraico fino al mese scorso erano molto flebili.
Non ho avuto un’educazione religiosa, non ho studiato alla scuola ebraica, ho frequentato alcuni amici di gioventù e parenti ebrei per questioni di vicinanza familiare o perché andavano in vacanza a Cogne come noi.
Quindi la vicinanza con il mondo ebraico era ridotta ai minimi termini, fin quando la settimana scorsa sono diventata la testimonial del mondo ebraico per questa vicenda che peraltro non ritengo così rilevante: sono stata complimentata per il coraggio. In realtà non c’è voluto nessun coraggio, ho semplicemente pensato che fosse opportuno dissociarsi da questa scelta (la sospensione della partecipazione al bando Maeci di collaborazione con atenei israeliani per progetti scientifici e industriali). In seguito sono stata contattata da diverse riviste, giornali e associazioni ebraiche e, forse, in questo momento ho rappresentato la sensibilità del mondo ebraico rispetto a un’ondata che obiettivamente ha dei germi, se non altro retorici se non effettivi, distruttivi nei confronti di Israele e che mi hanno particolarmente impressionato.

Pensi quindi che la scienza non si debba immischiare nei conflitti e nelle questioni politiche, ma perché?

La scienza costituisce un territorio neutro, di convergenza, anche umana. Chi fa lo scienziato, è una persona che tende verso una ricerca della realtà e della verità, disinteressata, almeno in linea di principio. Il bisogno di conoscere è un desiderio universale, è transnazionale, ha percorso tutta la storia della scienza, dello sviluppo scientifico, particolarmente per quanto riguarda la matematica. Sembra corrispondere proprio a un bisogno umano di rigore.
Nel territorio neutro della scoperta scientifica ci si incontra, condividendo un ideale abbastanza forte e attraverso questo momento di incontro si creano relazioni che ci fanno anche capire le ragioni degli altri. Gli scambi scientifici rendono più umani anche i contesti più disumani perché costituiscono un momento in cui ci si riconosce per un bisogno comune.

Questo discorso si può applicare anche ad altri settori: le arti, la letteratura, lo sport?

Certamente: io mi occupo di matematica, mi incontro quotidianamente con una comunità che è totalmente transnazionale di persone che poi ovviamente vivono le loro realtà.
Il processo maturativo di comprensione delle ragioni dei diversi punti di vista, che deriva dallo scambio, è la ragione per cui io mi sarei opposta a qualunque blocco di attività scientifica con qualunque paese, per quanto si possa considerare colpevole. È una questione che possiamo definire di carattere generale. L’ho fatto nelle sedi opportune, per esempio in seno alla società matematica europea, del cui Consiglio direttivo faccio parte.

Quando si è posto il problema?

In realtà c’era un precedente, la posizione che avevo assunto nel caso del conflitto in Ucraina anche contro le rimostranze, emotivamente giustificate quanto vogliamo, dei matematici ucraini, che chiedevano di isolare la comunità matematica russa dalla società europea.  I componenti della società matematica europea hanno congelato gli scambi con le istituzioni statali, mantenendo tuttavia quelli con le società scientifiche e con le persone, per non interrompere anzi, se possibile, intensificare i rapporti con i matematici russi.
Su Israele, incontrando e interloquendo con gli studenti di Cambiare rotta ho visto utilizzare un lessico, delle espressioni, una retorica che esprime il disconoscimento dello Stato d’Israele, della sua legittima esistenza. Una retorica che ho trovato abbastanza inquietante, assunta da persone giovani che forse non conoscono bene la storia, che però se ne appropriano prendendosene tutta la responsabilità.

E qui veniamo all’uso del lessico.

Certo, il lessico caratteristico dei movimenti pro palestinesi che mirano alla distruzione, se non fisica, morale dello Stato di Israele.  A cominciare dall’affermazione che Israele sta compiendo un genocidio. L’uso della parola genocidio, l’uso della parola apartheid, il fatto che Israele sia uno Stato colonialista e suprematista. Sono parole molto forti che corrispondono a una visione totalmente negativa di Israele ma, soprattutto, negazionista del diritto che quello stato possa continuare a esistere: perché compie un genocidio, fa l’apartheid, è colonialista, etnosuprematista.
Se tu non sei d’accordo con quello che fanno gli Ayatollah, non dici che sei anti-iraniano, se sei contrario a quel che fa Orban non dici che sei anti-ungherese, allora non dici neanche che sei antisraeliano, che già sarebbe un passaggio di distribuzione della responsabilità, dai governi a tutta la popolazione. Ma nel lessico degli studenti negazionisti non si dice antisraeliano, si dice antisionista.
Perché non antisraeliano? Perché la retorica dei filopalestinesi non usa né la parola “anti israeliana” né “Israele”. È contro la “entità sionista”. Quindi, se dici “io sono antisionista” significa che non ammetti nemmeno l’esistenza di Israele. Sei contrario, adesso, a quei movimenti che hanno portato alla creazione dello Stato di Israele nei tempi passati.
Negandola ti opponi a quella storia che è iniziata più di cent’anni fa, che ha portato alla creazione dello Stato di Israele.  Viene utilizzata una narrativa che attenta alle stesse radici della creazione dello Stato di Israele.
La parola colonialista è anche interessante, perché il ‘900 è stato percorso dai movimenti anticolonialisti. Cosa si fa coi colonialisti? Li si butta fuori, come è successo con i francesi in Algeria. Le accuse di colonialismo che vengono fatte non sono al 100% false perché è vero, i coloni israeliani vanno a colonizzare i territori palestinesi, come non si può negare che i soldati israeliani uccidano dei civili nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania.

Quello che preoccupa è l’estensione del discorso: la distribuzione di tutta la responsabilità di questo governo sull’intera popolazione israeliana, anche quando è contraria alla guerra, o è pacifista.
Non viene messo in discussione solo ciò che sta accadendo ora ma ci si oppone alla creazione e all’esistenza dello Stato di Israele ottanta anni fa.
Un doppio passaggio che trovo sinceramente molto pericoloso e fondamentalmente antisemita: è una radicalizzazione nel senso proprio di andare alle radici, travisandole. Gli israeliani, anzi, i sionisti, sono cattivi, cattivissimi, allora distruggiamo, neghiamo loro il diritto di esistere. Ma non è stato fatto neanche con la Germania nazista: è vero, alla fine l’hanno divisa in due, però non è stato mai detto che bisognava buttare fuori tutti.

Perché questo doppio passaggio? Perché non lo si fa in nessun altro caso del globo terrestre?

Non è comunque la simpatia che posso provare per i colleghi israeliani che mi ha indotto a votare come ho votato in senato accademico.  Il fatto che il Senato, il rettore dell’Università di Torino, abbia in qualche modo concesso un riconoscimento politico, anche se alla fine minimale perché la mozione era molto ambigua, a un movimento che si rifà alla retorica che ho descritto prima, secondo me è molto grave. Il professor Cuniberti è stato coraggioso a partecipare con me all’incontro organizzato a Torino con due associazioni ebraiche: ha portato con onestà il suo punto di vista. Inizialmente lui e tutti i membri del Senato accademico hanno sottovalutato le circostanze e hanno fatto da apripista: adesso gli studenti che hanno espugnato Torino, hanno avuto riconoscimenti politici e creato un precedente dannoso. Siamo stati colti di sorpresa, però in seguito gli altri atenei avrebbero dovuto essere più preparati e avere qualche controproposta.

Io però, sul momento, non ero arrivata a questa elaborazione. È chiaro che la via è molto stretta: io contesto il comportamento delle truppe israeliane a Gaza che hanno portato a una strage di civili, al di là, per me, dell’ammissibile. Questa critica deve trovare una strada, lontana dalla retorica che ho descritto prima e che la decisione del Senato accademico ha sdoganato, dando voce a movimenti studenteschi che l’hanno fatta propria.
D’altra parte, mi permetto di dire alcune mie sensazioni.
Allo zoom promosso dall’Associazione ex allievi della scuola ebraica di Torino, alcuni degli interventi del pubblico sono stati interessanti: quelli che hanno sottolineato la responsabilità politica del Senato che ha approvato la delibera. Questo mi ha fatto pensare. Leggendo però le parole nella chat mi sono preoccupata perché il lessico contro i palestinesi espresso da alcuni interventi mi è parso simmetrico all’odio pregiudizievole che c’è nei confronti di Israele.

In questa strada stretta, che ogni giorno si restringe, episodi come l’uccisione di sette operatori umanitari rende il carico sempre più pesante e rischia di dare riconoscimento politico al movimento che adotta la retorica descritta prima.
Probabilmente la mia radice ebraica ha anche influito sulla sensibilità verso l’intera vicenda.

Il giornalista israeliano Yval Abraham ha pubblicato sul magazine +972 un lungo reportage sull’impiego massiccio dell’intelligenza artificiale a Gaza da parte di Tsahal. Probabilmente gli scienziati che hanno sviluppato l’intelligenza artificiale non avevano in mente un utilizzo del genere ma c’è sempre il problema per la scienza di andare avanti e fare scoperte che poi possono avere sviluppi lontani dagli scopi originari. Cosa mi puoi dire su questo?

Io non avevo mai affrontato queste implicazioni anche perché, occupandomi di una scienza estremamente astratta e teorica, le possibili applicazioni belliche o nefaste per l’umanità di quello che è il mio campo di ricerca, sono molto lontane. Tu oggi con Whatsapp, mandi o ricevi il video dei nipotini dall’altra parte del mondo e ti sembra una cosa normale: in realtà dietro alla possibilità di spedire un video c’è una questione di compressione delle immagini e compressione e decompressione dei segnali che è prettamente matematica, in cui si usano delle idee matematiche che sono state sviluppate negli anni 80, partendo da ragioni completamente diverse, da studi su come decomporre i segnali audio o video nel modo ottimale per diversi scopi.
Ci sono dietro questioni teoriche, che hanno peraltro un’infinità di applicazioni anche molto positive per l’umanità. La guerra oggi però è tecnologica, cioè vince chi ha la tecnologia più forte.  In ogni progresso scientifico è impossibile prevedere se potrà avere utilizzi bellici e quali. Questo ha dei lati ovviamente negativi e disturbanti dal punto di vista morale.

Cosa pensi riguardo al pregiudizio negativo sulla scienza?

In questo momento, c’è un forte pregiudizio verso la scienza, determinato forse dal fatto che per molti la scienza sembra non contribuire più a un progresso positivo dell’umanità ma a un regresso, soprattutto della compagine sociale, per cui non ci si incontra, si fa tutto su Internet, non ci sono più negozi, sono cambiati i rapporti sociali. È un sentimento con varie ramificazioni, che si è anche orientato nella direzione dei movimenti anti-vaccini.

L’enfasi sulla ricerca “dual” (uso civile/uso militare) è ipocrita, perché non esiste un tipo di ricerca alternativo, del quale si possono escludere gli scopi bellici, attuali o futuri. Se vogliamo evitare for ever la ricerca dual, l’unica cosa da fare è non fare più ricerca. Dato che si continuerà a fare ricerca, chi la fa dovrebbe tenersi informato – in ogni momento – di come verranno utilizzati i suoi risultati.  Ugualmente è importante che i risultati delle ricerche siano accessibili a tutti, senza vincoli: ma quando c’è la conoscenza, può essere usata a tutti gli scopi, nobili o ignobili e quello bellico è uno di questi.

Viceversa, esiste una ricerca a scopi bellici, una ricerca tecnologica che però passa completamente al di fuori di quello che fanno i normali scienziati come me e che assorbe una quantità di soldi molto superiore a quella che viene investita nella ricerca a scopi non bellici. Il punto centrale della ricerca a scopi bellici è avere qualcosa prima che l’abbiano gli altri: si vuole poter disporre di tecnologie che i potenziali nemici non hanno ancora. Poi tutte le tecnologie, anche quelle sviluppate a scopi bellici, prima o poi entrano nell’uso comune. Pensa alla radio: è stata inventata per comunicazioni belliche, poi ne è stato fatto l’uso che tutti conosciamo.

In questa vicenda in cui sono stata coinvolta una delle ragioni che sono state portate affinché l’università si dissociasse dal bando degli Affari Esteri è che uno dei temi proposti per le ricerche congiunte fra italiani e israeliani aveva al suo interno l’ottica di precisione e tecnologie di calcolo quantistico per applicazioni di frontiera, come il riconoscimento dei buchi neri. È chiaro che l’ottica di precisione potenzialmente può avere scopi bellici che, in senso lato, potrebbero anche essere positivi, perché se l’ottica di precisione ti permette di colpire con maggior precisione un obiettivo bellico teoricamente vuol dire fare meno danni. È un discorso che naturalmente appare cinico. Però l’ottica di precisione è anche quella che ti permette di costruire i laser con cui poi fai le operazioni al cuore, con una precisione che non era possibile prima. In conclusione, l’ottica di precisione ti permette di puntare nella volta celeste e riconoscere degli oggetti celesti come possono essere i buchi neri e contemporaneamente di salvare vite umane ma anche di perfezionare i tuoi armamenti.

Le scoperte scientifiche che vengono fuori da collaborazioni su un tema di questo genere possono avere un’applicazione bellica, ma non immediatamente: probabilmente fra diversi anni. È necessaria una riconversione e una ulteriore ricerca finalizzata allo scopo bellico. Israele non persegue i suoi scopi di conoscenze di importanza strategica militare attraverso bandi da poche migliaia di euro, che per noi sono un’enormità ma che non sono niente, rispetto alla scala di investimenti nella difesa. Lo sviluppo tecnologico e l’acquisizione di tecnologie che gli altri non hanno, ovviamente, non si persegue con un bando aperto e, soprattutto, con chicchessia che poi diffonde i risultati della ricerca e le eventuali scoperte su pubblicazioni scientifiche. L’uso “dual” era un pretesto per bloccare questo bando di accordo scientifico tra Italia e Israele e il blocco, a sua volta, era un pretesto degli studenti per vedere riconosciuto un proprio ruolo politico. Del bando in sé non importa niente e neanche di quelle ricerche il cui possibile utilizzo bellico è una cosa lontana a venire.
In Israele (e in molti altri paesi) si fa tantissima ricerca, diciamo tecnologica, ad uso bellico, ma non la si fa attraverso un bando aperto a tutti, perché la cosa che interessa di più è che quella tecnologia non ce l’abbiano i potenziali nemici. Adesso tecnicamente l’Italia è un paese amico di Israele, ma quando si fanno ricerche in collaborazione poi le notizie vanno in giro, si comunicano ai congressi, mentre ciò che è segreto tale deve rimanere.

 

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