Tikkun genovese
Intervista di Filippo Levi
Ariel Dello Strologo, avvocato, è da molti decenni attivo nel mondo ebraico a livello nazionale e locale, avendo ricoperto in gioventù la carica di Segretario nazionale della FGEI (Federazione Giovanile Ebraica d’Italia), più volte eletto ai congressi dell’UCEI, istituzione per la quale è anche stato proboviro, è stato tra i fondatori ed ispiratori del centro culturale Primo Levi di Genova, oltre ad essere stato per molti anni consigliere e presidente della Comunità Ebraica genovese. A livello cittadino è stato per otto anni presidente della società Porto Antico, uno dei principali motori pubblici per il rilancio turistico commerciale e culturale della città ligure, nonché presidente per un anno della Fiera Internazionale di Genova.
Ariel è stato candidato alla carica di Sindaco per la città di Genova per la coalizione di centrosinistra. Ha raggiunto una percentuale di voti superiore al 38% contro un sindaco uscente estremamente forte dal punto di vista elettorale, anche in relazione ai successi ottenuti nella ricostruzione del ponte Morandi. Purtroppo non è riuscito a centrare quello che forse era l’obiettivo primario, ossia arrivare al turno di ballottaggio.
Che cosa ti ha spinto ad accettare questa candidatura ed una sfida così impegnativa e difficile?
Ho sempre avuto la spinta ad occuparmi della cosa pubblica, l’avevo fatto in passato con ruoli meno impegnativi, così quando il segretario del PD genovese è venuto in rappresentanza di un tavolo che raggruppava le diverse componenti dell’area progressista genovese e mi ha parlato di un progetto di rinnovamento della politica e di un’apertura alla società civile, ho pensato che potesse essere il momento giusto, non tanto di vincere le elezioni quanto di dare il mio contributo a questa volontà di cambiamento per tornare a parlare alle persone e ai territori.
Mi è piaciuta l’idea di tornare a parlare agli elettori con un’unica voce e di contribuire al rinnovamento della politica a sinistra, in termini sia di persone che di parole d’ordine. Oggi i grandi temi su cui bisogna lavorare sono l’ambiente, le identità, il lavoro, la povertà e il disagio. Tutto avendo come tema di fondo la riduzione delle gravi diseguaglianze che le scelte politiche ed economiche degli ultimi decenni hanno prodotto.
Cosa hai scoperto di Genova che non conoscevi?
È una città particolarmente complessa, anche per la sua conformazione e la sua distribuzione sul territorio. Si tratta in realtà di tante città, unite nel 1926 nella “Grande Genova” che, nonostante il passare degli anni e delle generazioni, e nonostante il ricambio della popolazione conseguente ai diversi flussi migratori interni ed esterni, hanno mantenuto la loro specificità, le loro tradizioni e una forte identità. È una ricchezza straordinaria che si riflette nelle numerosissime associazioni e organizzazioni (società operaie, misericordie, comunità religiose) che grazie al volontariato tengono in piedi il tessuto cittadino spesso trascurato e abbandonato dall’amministrazione.
Quali sono state le parole d’ordine della tua campagna elettorale?
Lo slogan era “Allarghiamo gli orizzonti, accorciamo le distanze” ed il senso era quello di una città che fosse capace di guardare fuori, di diventare attrattiva per i giovani di tutto il mondo, di recuperare quelle migliaia di abitanti che hanno lasciato la città in tutti questi anni (Genova ha perso più di un terzo della popolazione in 50 anni), ma anche di essere inclusiva, capace di avvicinare le persone, creando un forte legame di comunità anche intergenerazionale, e sviluppando sul territorio quella città dei 15 minuti di cui oggi tanto si parla. In questo l’amministrazione deve recitare un ruolo fondamentale, di indirizzo generale, di impostazione urbanistica e infrastrutturale, e di organizzazione dei servizi.
Cosa sei riuscito a comunicare e cosa no nel corso della campagna elettorale?
Mi ha sorpreso la forte sensazione di empatia e di confidenza che si è presto creata con le persone a cui mi avvicinavo, ho avvertito un forte bisogno da parte delle persone di essere ascoltate, di sapere che c’è qualcuno che si prenderà cura di loro e che proverà a trovare le soluzioni per i tanti problemi che ha la nostra città e hanno i nostri cittadini e le nostre cittadine.
In una città di molti anziani, i cui figli e figlie ormai si sono fatti una vita altrove, ci sono problemi legati alla solitudine ed al disagio della vita di tutti i giorni, soprattutto se l’amministrazione non è efficiente e presente su tutto il territorio: la digitalizzazione dei servizi è un’ottima cosa ma rischia di diventare un ostacolo insormontabile per le generazioni più in là con gli anni.
Specularmente, nonostante i giovani siano pochi, ho percepito anche il loro forte bisogno di essere ascoltati e di sapere che ci si sta preoccupando del loro presente ma soprattutto del loro futuro.
Che impressione hai avuto del mondo giovanile della tua città in termini di partecipazione e coinvolgimento?
A Genova ci sono pochi giovani ma quelli che ci sono esprimono forti energie e voglia di trovare luoghi e condizioni per esprimersi, per costruirsi una vita, dentro e fuori dal mondo del lavoro, senza dover per forza andare via dalla città o eventualmente per poterci tornare. La città ha una forte tradizione operaia e industriale e oggi è abitata in prevalenza da pensionati, manca una visione di città impostata sulle esigenze del mondo giovanile, che ragiona in prospettiva medio-lunga.
Dopo questa esperienza ti consideri più ottimista o pessimista sul futuro della tua città?
Io rimango in fondo un grande ottimista, e credo che dalla grande crisi che attanaglia la città da molti anni ormai si possa uscire con percorsi di cambiamento che possono far tornare Genova ad essere competitiva con le altre città del mondo, attrarre giovani e famiglie da ogni dove, e diventare un luogo ambito per andarci a vivere a qualsiasi età. È ovviamente necessario un forte impegno, a Genova soprattutto, nel non cedere alla tentazione del mugugno e del “maniman”, un’espressione che i genovesi e le genovesi usano quando preferiscono non rischiare (non si sa mai che…).
Nella campagna elettorale sono emersi casi espliciti di antisemitismo?
Esplicitamente c’è stato solo un isolatissimo caso di un manifesto imbrattato con un pennarello, rispetto al quale ho ricevuto piena solidarietà da tutte le forze politiche. Nelle segrete stanze dei salotti genovesi, invece, so che la mia appartenenza all’ebraismo, sia a destra che a sinistra, ha fatto arricciare qualche naso, ma di questo non possiamo certo sorprenderci.
Come ti sei relazionato con questi episodi e con gli ambienti dai quali sono scaturiti?
L’antisemitismo è presente in tutti gli ambienti della società, si esprime spesso – fortunatamente – in modo sotterraneo e a Genova non ha mai raggiunto livelli di allarme, anche grazie al lavoro fatto dalle istituzioni e dalla politica ufficiale in tanti anni di buoni rapporti con la Comunità.
Rimane il pregiudizio diffuso e la tendenza a trovare un colpevole quando le cose non vanno come si spera, così a sinistra si demonizza Israele e chi lo rappresenta in qualche modo, a destra si richiamano i pregiudizi e gli slogan del passato.
Ritengo che la situazione a Genova non desti preoccupazione e che gli anticorpi siano ancora forti. La latenza però c’è e nei momenti di crisi è facile che l’odio antisemita trovi i canali giusti per riemergere in superficie.
Secondo te la candidatura ad una carica pubblica di una persona come te, che ha sempre esplicitamente manifestato le sue radici e la sua appartenenza al mondo ebraico, è considerata in Italia una cosa normale o ritieni che sconti ancora delle forme di pregiudizio e diffidenza?
Come ho detto, almeno a Genova, non è stata mai posta apertamente la questione; si tenga conto infatti che quest’anno in Consiglio Comunale oltre a me è stato eletto anche Angiolo Veroli, eletto con la lista del Sindaco uscente, vice Presidente della Comunità ebraica.
So però che alcuni ambienti della città non hanno gradito, a sinistra come a destra. Lo so perché mi sono state riferite diverse conversazioni private in questo senso.
Che relazione c’è tra la tua esperienza di attivismo in campo ebraico e il tuo attivismo politico sul piano nazionale?
Posso dire tranquillamente che all’origine di tutta la mia spinta verso la politica e l’impegno civile c’è la mia identità ebraica, soprattutto per come mi è stata trasmessa dai miei genitori, e non è un caso che la prima palestra sia stata la FGEI, di cui sono stato segretario generale per tre anni.
È la chiamata a partecipare al tikkun, la possibilità di dare il proprio contributo per riparare il mondo.
L’atmosfera carica di passione, di entusiasmo e di unità che ho respirato nel gruppo che ha lavorato con me in campagna elettorale (nel quale c’era qualche vecchio amico dei movimenti giovanili ebraici) è la stessa che caratterizzava i consigli della FGEI.
Insomma tutto è cominciato allora…
Infine, per concludere, una domanda personale: che impatto ha avuto questa esperienza sulla tua famiglia?
Dopo un’iniziale titubanza e, per alcuni, aperta contrarietà, la famiglia ha partecipato con grande passione e positività a quest’avventura, e non posso che ringraziarli tutti per la pazienza e per il supporto, mia moglie Chiara soprattutto. Mi spiace solo che mio padre non abbia potuto essere con me in questi mesi così intensi, credo che avrebbe trovato molte tracce dei suoi insegnamenti e del suo esempio in quello che stavo portando avanti.