di Anna Segre
Fausto e Lia fanno parte di quella categoria di persone – genitori, zii, nonni, cugini più grandi e, appunto, amici dei genitori – che non posso raccontare di aver conosciuto perché semplicemente ci sono sempre state. Quando sono arrivati a Torino nel 1967 io ero appena nata. Nei miei ricordi di qualunque genere i Tagliacozzo ci sono quasi sempre: Rosh Hashanà, Pesach, feste, vacanze in montagna, pomeriggi di gioco (per i bambini e per gli adulti) e molto altro. Li chiamavamo “papà Fausto” e “mamma Lia”. E anche con il passare degli anni le cose non sono cambiate: i Tagliacozzo erano la famiglia da cui andare al venerdì sera quando i miei genitori non erano a Torino, la loro casa di Pino Torinese è stata il rifugio fresco dove dormire nell’estate in cui ero rimasta in città per scrivere la tesi.
Con Fausto credo di aver discusso di tutto: libri, film, mostre, viaggi, politica, ebraismo, Comunità, Israele… forse farei prima a dire di cosa non abbiamo discusso, ammesso che ci sia qualcosa di cui non abbiamo discusso (al momento non mi viene in mente). I suoi interessi spaziavano in ambiti anche molto diversi tra loro (forse non molti sanno, per esempio, che era anche un pittore dilettante). Le sue opinioni erano originali, taglienti, spesso spiazzanti, volutamente provocatorie. Non si adeguava alle mode, non andava dietro alla maggioranza, anzi, credo che talvolta si divertisse a sostenere il contrario di quello che dicevano gli altri. Spesso capitava di subire da parte sua un vero e proprio terzo grado, con domande anche non facili (chiedeva di esprimere preferenze, giudizi a caldo, opinioni su persone, gruppi, eventi, ecc.), che potevano anche essere imbarazzanti ma facevano piacere perché dimostravano interesse e partecipazione; talvolta, davvero, le domande di Fausto mi hanno aiutata a chiarirmi le idee, a rivedere le mie esperienze in una luce nuova.
Data questa vicinanza sarebbe logico supporre che io sia sempre stata perfettamente informata sull’infanzia di Fausto e sulla sua vita prima dell’arrivo a Torino. In realtà non è così. Sapevo vagamente che i suoi genitori erano stati deportati e che per un certo periodo aveva vissuto in Israele (anzi, in quello che poi sarebbe diventato Israele), ma nulla di più. In parte è un fenomeno comune a tutta la mia generazione (raramente, anche in contesti come l’Hashomer Hatzair o la Fgei, ci è capitato di raccontarci a vicenda le avventure vissute dai nostri genitori durante la guerra), ma nel caso di Fausto c’era qualche remora in più, una vicenda particolarmente dolorosa in cui nessuno di noi osava scavare più di tanto.
Sono arrivata a conoscere davvero la sua storia e quella della sua famiglia (che oggi si può leggere nel libro Il ritorno di Tosca a cura di Giordana Tagliacozzo) solo quando l’ho intervistato per la Shoah Foundation, nel 1998. Un’intervista che aveva concesso nonostante qualche esitazione iniziale e qualche dubbio, ma che poi aveva preso sul serio rispondendo con puntualità e precisione.
Già qualche anno prima avevo avuto occasione di fargli un’altra intervista, questa volta per un giornale cartaceo, Ha Tikwà (numero 246 del giugno/luglio 1991), di cui Fausto è stato il primo direttore; o, meglio, prima di lui Ha Tikwà (organo della Federazione Giovanile Ebraica d’Italia) esisteva già, ma come foglio interno al giornale Israel; Fausto è stato dunque il protagonista di quella coraggiosa scelta di indipendenza. Naturalmente, come capita in tutte le generazioni, vi era una discreta differenza tra l’orientamento un po’ polveroso del giornale Israel e l’atteggiamento un po’ “di sinistra” dei giovani (tutti i giovani in tutte le epoche hanno svolto questa funzione di rinnovamento) che volevano anche dire delle cose controcorrente; soprattutto ci si voleva schierare un pochino e sempre con le forze che ricordavano la Resistenza, l’antifascismo, mentre Israel era molto pacato su questi temi e preferiva un notevole conformismo.
Come facesse a studiare medicina, lavorare nel negozio di famiglia e contemporaneamente dirigere un giornale in condizioni ben più difficili di quelle attuali non riesco neppure a immaginarlo. Interessante rileggere i suoi racconti sul lavoro redazionale: Naturalmente la cosa più bella erano le sedute di redazione, con la lettura degli articoli, il confronto delle idee e l’affannosa ricerca degli argomenti.
Fausto era una di quelle persone a cui non piace mettersi in mostra e a cui davvero non importa per nulla di esibire i propri successi. E così anche nell’intervista sulla nascita di Ha Tikwà si era dilungato maggiormente a descrivere il clima politico e culturale della gioventù ebraica italiana del dopoguerra che a parlare del proprio ruolo personale nel giornale, limitandosi a una frase leggermente autoironica: Il sottoscritto si fece carico del pomposo titolo di Direttore Responsabile (a quei tempi non era ancora indispensabile essere iscritti all’albo dei giornalisti).
Anche della sua professione (primario di psichiatria a Chivasso) non parlava moltissimo, in parte per le evidenti esigenze di privacy, in parte anche per la sua tendenza a mettere tutto in discussione, compresa la psichiatria stessa. Encomiabile, comunque, la scelta di lavorare per la sanità pubblica, per il bene della collettività.
Tutt’altro che marginale è stato anche il suo ruolo all’interno dell’ebraismo torinese, e non solo come first gentleman (cioè marito della Presidente della Comunità), ruolo (se così si può definire) che ha ricoperto per circa dieci anni. Attivo da sempre nel Gruppo di Studi Ebraici, Fausto è stato tra i fondatori di Ha Keillah, tra le persone sempre presenti e attive nelle discussioni e nella vita culturale del GSE e dell’intera Comunità di Torino; è stato vicepresidente delle Opere Pie Israelitiche, ente che si occupava di scuola, assistenza, casa di riposo. Nell’ambito dell’ebraismo torinese la sua voce libera, intelligente e originale e la sua indipendenza di giudizio, che non si lasciava ingabbiare in gruppi e schieramenti precostituiti, sono state per molti decenni una risorsa preziosissima.
Che il suo ricordo sia di benedizione.