di Angela Godfrey-Goldstein
Angela Godfrey vive in Israele ed è un’attivista per la pace e i diritti umani, soprattutto attraverso l’advocacy. Il suo impegno consiste nel raggiungere diplomatici e giornalisti con storie, filmati, articoli di giornale, fatti e cifre: a volte svolge il suo lavoro guidandoli a vedere di persona, altre volte attraverso i gruppi WhatsApp che gestisce.
È pittrice, ma senza tempo per dipingere, poeta, un tempo attrice e ha lavorato molto per la radio.
È nella natura umana, ci dicono gli psicologi, cercare di normalizzarsi: vivere una vita normale e stabile. Le abitudini diventano radicate e il nostro centro di gravità tende a ripetere schemi quotidiani, la cui routine è confortante nella strutturazione complessiva della nostra vita, e in gran parte “data per scontata”. Questo stato “normale” può, ovviamente, coprire stati d’animo più profondi di cui solo il subconscio è consapevole, ma che nega per mantenere la finzione della “normalità”.
Nessuno di questi stati mentali “normali” è facilmente raggiungibile nella realtà attuale. Il 7 ottobre ha tagliato i tessuti sociali, a tanti livelli. In questo piccolo Paese, abbiamo tutti la percezione di aver perso i nostri cari – compresi i compagni attivisti per la pace, gli attivisti sociali e i loro familiari – e i pilastri fondamentali della sicurezza di questa società sono stati abbattuti, come se alla fine Sansone fosse stato provocato a un suicidio vendicativo.
La polizia e l’IDF non sono intervenuti in soccorso per molte ore. Gli avvertimenti erano rimasti inascoltati per mesi, se non per anni. L’”idea” di Netanyahu di fornire fondi ad Hamas per minare l’Autorità Palestinese (per ostacolare uno Stato palestinese e la pace) è stata descritta come un ulteriore livello della sua perfida corruzione. Il fatto che l’elemento sessuale delle aggressioni sia venuto fuori lentamente ha aumentato il livello di trauma e paura, con l’Altro dipinto come un nemico dell’intera società, e quindi TUTTI i gazawi come in qualche modo colpevoli e meritevoli di una punizione collettiva.
Le vittime di stupro non sono mai facilmente disposte a rivivere o anche solo a riconoscere i loro traumi. Né dovrebbero uscire in pubblico solo per amore delle pubbliche relazioni. Ma il loro relativo silenzio ha consentito che la negazione delle violenze di genere si incancrenisse in narrazioni concorrenti, spesso promosse da persone con un programma. Qualcuno ha dipinto le atrocità del 7 Ottobre come qualcosa di giustificabile. Si può supporre che quelli che erano lontani dalla scena del crimine, che non hanno avuto conoscenza della vera profondità delle atrocità, semplicemente non siano state esposte alla penosa verità delle vittime, alcune delle quali si dice che si siano suicidate. Altri – che si considerano “pro-Israele”, con un programma opposto – si sono affrettati a promuovere “fake news” e vera e propria disinformazione (come i 40 bambini decapitati), aggiungendo incertezza e voci di corridoio.
La “situazione” non è mai stata stabile, anche se in superficie poteva sembrare tale. Non ha superato la prova, quindi ora un intero Paese sta affrontando l’incertezza, con solo i rabbiosi messianici che vanno avanti promuovendo la loro agenda vendicativa, prima di essere scalzati – si spera – dal potere, una volta che il cessate il fuoco sarà in vigore. Netanyahu deve sicuramente andarsene: i sondaggi su di lui ora lo danno solo al 16%.
Ancora una volta, facendo riferimento alla psicologia: c’è sempre il pericolo di creare ciò che si teme, soprattutto quando la paura è il principio guida. Netanyahu ha deliberatamente cavalcato il potere grazie alla politica del terrore. Quindi il contesto dopo il 7 ottobre – in particolare l’occupazione e il blocco di Gaza – ha prodotto un mostro prevedibile. Inescusabile, sì. Imprevedibile, no.
La scritta è sempre stata sul muro. Da sempre. Ma abbiamo scelto di chiudere gli occhi o di non ascoltare gli avvertimenti di profeti preveggenti come Uri Avnery, Yeshayahu Leibowitz o Shulamit Aloni. O Yitzhak Rabin, che ha cercato di persuadere gli israeliani che “siamo abbastanza forti per uscire dal ghetto”. Un messaggio simile a quello di Nelson Mandela e Fredrick de Klerk, quando persuasero i sudafricani bianchi ad abbandonare la loro mentalità da “laager” (accampamento fortificato), e a scegliere la coesistenza e la pace invece dell’apartheid.
Ciò che è sempre stato evidente ad alcuni qui in Israele è la fragilità di gran parte delle fondamenta su cui la società israeliana si era costruita dal 1948 o durante la formulazione del sionismo nella versione del Muro di Ferro di Jabotinski. Il controllo israeliano sui palestinesi, sostenuto da politiche razziste di apartheid [anche all’interno di Israele, dove non c’è mai stata piena uguaglianza – si veda su http://www.adalah.org un elenco di oltre 60 leggi discriminatorie che colpiscono i palestinesi israeliani dal ’48] ha fatto sì che, negando la libertà agli altri, noi stessi non siamo mai stati veramente liberi. Non da ultimo, questo fatto è evidente nel gran numero di israeliani che ora vivono in Portogallo, a Berlino, a New York o a Los Angeles; nella recente emigrazione di psichiatri a Londra e nel fatto che lasciare Israele non è più un tabù.
Un popolo traumatizzato dopo l’Olocausto o dopo i pogrom europei prima della Shoah cercava sicurezza. Non hanno cercato di integrarsi nella regione, preferendo non fare matrimoni misti e rischiare di perdere la loro rigida versione di ebraismo non assimilato. Ma hanno scelto l’opzione militare, che ha minato, nel tempo, la precedente coesistenza esistente in questa regione – prima che le rivolte arabe degli anni ’20 e ’30 mettessero in discussione gli sgomberi forzati dei contadini palestinesi dalle terre svendute da sotto i piedi dagli accordi fondiari ebraici nelle lontane Beirut e Damasco. O l’eredità della Dichiarazione Balfour, che ha così dannosamente privato la popolazione locale. E poi la Nakba… E ora la fusione sovversiva tra Stato e religione da parte dei militanti nazionalisti del movimento sionista religioso dei coloni.
Alcuni israeliani hanno ormai virato la loro politica da sinistra a destra, in preda alla paura, senza chiedersi se i valori della destra o il suo modus operandi non stiano in realtà aggravando il problema… Pensate al furto di terre da parte dei coloni, al suprematismo, al fascismo, all’abbandono messianico dei valori ebraici o al colonialismo. O al genocidio. Il loro diritto che abbandona l’Altro, la loro insularità, la loro mentalità così simile a quella degli afrikaner che praticavano l’apartheid nel Sudafrica razzista. Il loro bisogno di essere il popolo eletto, prova di un profondo complesso di inferiorità. Perché in un mondo veramente normale, chi ha bisogno di essere di più di ogni altro essere umano?
Per noi del campo della pace, l’affidamento della sicurezza al militarismo è sempre stato ovviamente fuori luogo. Quanto si può essere liberi o sicuri con le mani che strozzano la gola di qualcuno? L’ideologia dei coloni è sempre stata ovviamente insostenibile. Come mi disse un giornalista internazionale nel 2004, parlando di Israele e della sua occupazione della Palestina: “È come guardare un incidente d’auto al rallentatore. Sai esattamente dove andrà a finire. E non puoi fare nulla per fermarlo”.
Quindi, l’ansia profonda di tanti israeliani, che hanno sempre saputo nel profondo che il modus operandi era pericoloso, senza un futuro praticabile a parte la “fede” cieca e cultuale dell’estrema destra… che lo stress è sempre stato uno dei motori di Israele, che di per sé ci ha negato la lucidità di pensiero e di pianificazione. Il massacro di 29 palestinesi a Hebron, compiuto da un colono kahanista, il dottor Baruch Goldstein, durante le preghiere del Ramadan, nella Grotta dei Patriarchi/Moschea Ibrahimi, è stato un omicidio di massa deliberato per far deragliare gli accordi di Oslo, così come l’assassinio di Yitzhak Rabin (z “l) un anno dopo. Quel massacro a Hebron ha spinto Hamas a cambiare la sua politica di lotta armata (come testimoniato allo scrittore Chris Hedges dal leader di Hamas Rantisi), passando dall’attacco a soldati o coloni all’interno del territorio occupato ad attacchi di massa da parte di terroristi suicidi contro civili israeliani, all’interno della Linea Verde di Israele. Traumatizzando gli israeliani e allontanandoli dalla fiducia nella pace come opzione migliore o nell’Altro come partner.
Sono stata testimone del primo attentato nel 1994, nel Dizengoff Centre– Bus N. 5 – nel cuore del centro di Tel Aviv. Allo stesso modo, nel 2002, sono quasi salita su un autobus in Allenby Street, nel centro di Tel Aviv, per poi vederlo esplodere a 200 metri da me. Eppure, quando ho riferito quell’evento a un amico israeliano, dicendo quanto fosse urgente fare la pace, la sua risposta si riverbera ancora oggi: “Hanno cercato di ucciderti e tu vuoi la pace con loro?”. Una mentalità che governa molti israeliani di oggi, per i quali la vendetta, la deterrenza e la reazione eccessiva sembrano essere i principi guida, alimentati dal trauma. Una discesa perenne nel vortice della violenza da Comma 22, invece dell’urgente necessità di cercare una risoluzione, un ritorno alla “normalità” e un futuro che sostenga la vita equa di tutti. Il diritto di tutti di vivere nella giustizia, nell’uguaglianza e con pieni diritti umani – in particolare l’autodeterminazione e l’avere uno Stato, se questa è la loro scelta.
Ora questo incidente al rallentatore ha subito un’accelerazione, in parte come punizione per le nostre politiche di occupazione e le sofferenze che hanno causato, e in parte come strategia per sconfiggere Israele a favore di una dura forma di fascismo islamico. È evidente – anche grazie alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja – che è in atto un plausibile caso di genocidio, soprattutto per il numero spaventoso di bambini gazawi massacrati. Eppure, molti israeliani scelgono il proprio “essere vittima”, piuttosto che vedere il più grande “essere vittima” dell’altro. L’ego[1] è diventato addirittura una “norma” culturale: i guidatori israeliani, ad esempio, notoriamente si prendono la precedenza piuttosto che cedere il passo. Salire sugli autobus riesce troppo spesso a coloro che si danno maleducatamente di gomito per essere i primi, mentre i bambini israeliani raramente cedono il loro posto (le loro scarpe sono troppo spesso parcheggiate sul sedile di fronte a loro) agli anziani o ai malati… Ho persino letto un’analisi su X (ex Twitter) di Alon Mizrachi, che postula una teoria secondo cui i leader israeliani in realtà VOGLIONO essere odiati, per poter continuare il lavaggio del cervello e l’incitamento alla paura di un pubblico israeliano malleabile: “Il mondo è contro di noi. Dobbiamo essere forti. L’IDF è la nostra forza, la nostra deterrenza. Loro sono terroristi, noi siamo la villa nella giungla, i buoni in un brutto quartiere, l’unica democrazia del Medio Oriente” – e tutta quella mitologia auto-assolutoria che rifiuta la pace.
Detto questo, credo che la situazione attuale sia un momento di grandi opportunità e cambiamenti. La sfida consiste nel capire se la sinistra sia in grado di formulare una via d’uscita da questo disastro e di effettuare un riavvio completo del sistema. Nella nebbia della “guerra” questo è improbabile: le temperature sono ancora troppo alte, l’ansia intensa e la disumanizzazione dell’altro (soprattutto i gazawi, ma anche i palestinesi di Gerusalemme Est e del resto della Cisgiordania) è quasi una strategia militare. Ci sono, tuttavia, germogli di speranza. E la speranza in una situazione del genere non è un lusso, deve essere un articolo di fede insieme alla necessità di rimanere legati alla nostra umanità. Molti nella Sinistra sono in contatto quotidiano con amici di lunga data a Gaza, quindi l’urgenza è a livello viscerale, persino nella disperazione, mentre ascoltiamo quotidianamente testimonianze di prima mano di ciò che i nostri amici stanno sopportando, il terrore delle loro vite orribili.
Organizzazioni come A Land for All e Standing Together stanno formulando piani per il giorno dopo. Standing Together (“Omdim b’Yachad”) vede un enorme aumento dei partecipanti alle sue proteste che chiedono il cessate il fuoco, le elezioni per liberarci di Netanyahu e vogliono arrivare alla coesistenza. In una conferenza tenutasi a Haifa la scorsa settimana, è emerso chiaramente che questo è il momento per una direzione totalmente nuova. Ad esempio, i leader si candidano alle elezioni municipali con un obiettivo a lungo termine di costruire un movimento di base in grado di eleggere membri della Knesset. Il livello di visione estremamente basso di molti membri della Knesset, alcuni dei quali sono più simili a mafiosi (in italiano nel testo) populisti che a funzionari pubblici, è un altro problema importante. La maggior parte degli israeliani onesti non si sogna di entrare nella palude della politica mainstream, preferendo invece essere medici, avvocati, imprenditori hi-tech o kibbutzniks.
Ma questo è ora, chiaramente, un progetto di trasformazione multigenerazionale.
Il trauma di tutti i bambini di Gaza, in particolare delle decine di migliaia di orfani, per non parlare del trauma di tutti quei genitori gazawi che hanno perso figli e altri membri della famiglia, sarà – come accade per i traumi – portato nel DNA di generazione in generazione. L’impunità israeliana è diventata una “norma” culturale che la comunità internazionale ha troppo a lungo accettato e quindi incoraggiato, quindi la responsabilità deve essere invocata, soprattutto per il bene dei bambini israeliani, per svezzarli da un atteggiamento di “perché dovrei preoccuparmi?”. (“Ma ichpat li?”), che facilita il comportamento criminale, la violenza quotidiana o addirittura l’omicidio e l’incendio doloso. I soldati israeliani dichiarano di soffrire di un alto livello di PTSD (stress post traumatico) a causa degli atti che hanno compiuto. Quindi sì, quando il cessate il fuoco sarà finalmente raggiunto e gli ostaggi liberati, ci aspetta un grande cambiamento. Un importante bilancio. E – si spera – non un altro giro di trinceramento o di aumento del fascismo, ma un totale cambio di direzione.
Ci vorrà tempo. È una sfida che deve essere multigenerazionale, non una sensazione notturna o una sveglia sulla Via di Damasco. Ma credo che in questo momento ci sia bisogno di una seria ricalibrazione, di un bilancio e di un apprendimento delle lezioni, per forgiare un nuovo percorso. Una via d’uscita dai falsi profeti del militarismo, della separazione, dell’occupazione, dell’apartheid e della strage. È un’impresa attesa da tempo. Ma credo che un numero sufficiente di persone veda ora chiaramente ciò che prima aveva deliberatamente evitato di riconoscere. Non possiamo continuare su questa strada suicida. Perché, come ho detto, la scritta è sempre stata sul muro. Per questo il mio attuale graffito sul Muro dell’Apartheid è di colore rosa, non il precedente nero: “LIBERTÀ!!!”
Gerusalemme, 6 febbraio 2024
Traduzione di Giorgio Canarutto
[1] Secondo i miei studi le pratiche della Kabbalah ebraica lavorano per aumentare i livelli di autoconsapevolezza, in modo da poter identificare l’ego: questo sviluppa, nel tempo, la capacità di scegliere liberamente le proprie risposte e di comprendere meglio la psicologia degli altri. Insegna a essere meno egocentrici, più capaci di vedere l’altro e di scegliere un approccio più empatico e compassionevole