di Giorgio Berruto
È arrivata un po’ alla volta, insieme alle notizie che impiegavano giorni a definire le dimensioni dei fatti. Non voglio scrivere del 7 ottobre anche se non so perché. Forse perché credo che non ci sia in fondo niente da scrivere, che tutto sia talmente chiaro ed evidente. E che chiunque tentenni nel giudizio si ponga con ciò stesso fuori dalla decenza e dall’umanità. Proverò allora semplicemente a raccogliere alcune delle sensazioni che da due mesi accompagnano la vita quotidiana qui in Italia, a Torino, a migliaia di chilometri dal massacro.
La dimensione prevalente dal punto di vista emotivo dopo quel sabato di ottobre è la solitudine. Parenti, amici, conoscenti ebrei o legati in qualche modo a ebrei fanno certamente eccezione. Con molti di loro è stato ed è possibile condividere sguardi, pensieri e anche silenzi – ma solo con loro. Tra i momenti significativi, una serata informale con Gabriele Segre, esperto di geopolitica ma anche di dinamiche di gruppo e team building, organizzata dal gruppo dei giovani ebrei torinesi (Get). Gabriele ci ha ricordato che condividere con altre solitudini non è detto che serva a cambiare le cose, ma è buono. Al contrario, fuori dalla ristretta e preziosa cerchia degli altri appestati, all’esterno del circolo delle altre solitudini, nulla. Neanche uno dei miei amici non ebrei ha pensato di scrivere un messaggio whatsapp o dire qualcosa. Nessuno si è posto il problema, a quanto pare, o qualora se lo sia posto ha subito rinunciato. Non sto ipotizzando inverificabili malizie, sto dicendo che nessuno ci ha pensato, e il problema a me sembra davvero tutto qui.
Lo so, non è facile fare qualcosa quando il dolore non è direttamente il nostro, quando è quello degli altri. Salvo eccezioni, non ci si dà poi grande peso. In questi anni mi è capitato di partecipare a manifestazioni in solidarietà dell’Ucraina invasa oppure per i diritti delle donne iraniane o ancora per quelli delle coppie omosessuali (non solo nei paesi dove rischiano la forca, anche qui da noi dove le forme discriminanti sono meno gravi eppure persistenti). Ci sono andato per curiosità, per convinzione, per interesse, per fare una passeggiata in un pomeriggio di sole. Per partecipare a un dolore altrui, certo, ma solo a patto che quell’ora strappata alla routine non disturbasse troppo altri impegni o priorità. Come posso pretendere che per altri la partecipazione a un dolore che non tocca personalmente sia una priorità, se anche per me non lo è?
Oltre alla solitudine e al senso di inermità, c’è una terza sensazione che vorrei menzionare, strettamente intrecciata alle prime due, ed è l’indifferenza. Tante volte in queste settimane ho pensato alla scritta che campeggia al Memoriale della Shoah alla stazione centrale di Milano. Indifferenza. L’indifferenza è certo molto meglio del sostegno esplicito o implicito al terrorismo antisemita da parte dei sodali di Hamas, siano essi musulmani fondamentalisti o semplicemente vittimisti, neonazisti, avventizi degli studi postcoloniali delle migliori accademie oppure dell’università della strada, terzomondisti a oltranza o idioti armati di sconfinata, indecente, colpevole ignoranza e superficialità. Con i miserabili che strappano i manifesti raffiguranti i volti dei bambini israeliani rapiti dai jihadisti o imbrattano le pietre d’inciampo è perfettamente inutile parlare. Può fare male e sicuramente fa male vedere l’antisemitismo trionfante sui social, per le strade, nei cortei e in alcuni spazi decisivi della cultura e dell’istruzione. Allo stesso tempo nessuno può dirsi onestamente stupito: cose analoghe le vediamo almeno dall’estate 2014, quando durante uno dei conflitti scatenati da Hamas contro Israele in alcune città europee si sono verificati i primi assalti contro le sinagoghe dopo la Shoah, e in buona misura anche da prima. Con l’indifferenza è diverso, perché la propaganda antisemita è il rumore, l’indifferenza il silenzio che circonda la solitudine. L’indifferenza fa più male perché è il terreno più vasto e decisivo, quello su cui potrebbe germogliare qualcosa in grado di fare la differenza. Di tanto in tanto qualcosa germoglia. Ma sono fiori rari.