di Ruth Garribba
Ruth Garribba vive da 30 anni nel kibbutz Bar’Am, vicino al confine con il Libano: a causa della guerra è stata sfollata prima in un hotel a Tiberiade ed ora in un piccolo appartamento per ospiti nel kibbutz Degania Bet.
“Yahad nenaz each”, ossia “Uniti vinceremo” è il motto che più spopola negli ultimi mesi in Israele. Non so chi lo abbia coniato, ma in questi giorni non puoi camminare per strada, comprare al supermercato, guardare la televisione senza imbatterti in continuazione in questo slogan che compare sui cartelloni pubblicitari, sugli adesivi, le magliette, i prodotti di consumo. Ovunque auspicano di vincere la guerra – ma con il monito: solo se uniti ci riusciremo. A distanza di quasi sette mesi dal 7 di ottobre, la retorica consumata di questo slogan comincia ad infastidire anche i meno critici, perché la stessa unità risulta essere un punto molto controverso nel dibattito sociale.
La società israeliana è sempre stata caratterizzata da profonde conflittualità tra diversi gruppi identitari – tra ebrei e palestinesi cittadini israeliani, tra laici religiosi e ultra ortodossi, tra ebrei di origine askenazita e quelli di origine sefardita, tra destra e sinistra (negli ultimi anni è più corretto definire questa divergenza tra sostenitori e oppositori di Netanyahu). Queste conflittualità hanno una peculiarità che le rende ancora più accentuate: nei vari campi di contrasto diverse identità si contrappongono l’una all’altra – sociologicamente parlando è facile rivelare un gruppo laico-askenazita-di sinistra e un un gruppo religioso-sefardita- di destra. Ovviamente la realtà è molto più complessa e sfumata e le identità personali molto meno monolitiche, ma queste divisioni fanno parte del DNA della società israeliana: In molti sostengono che l’attacco del 7 ottobre è stato possibile anche per le spaccature ideologiche e politiche che hanno indebolito la società negli ultimi anni. In questo modo di interpretare gli avvenimenti, è facile raggiungere la conclusione esplicita o implicita che la responsabilità è dei centinaia di migliaia di manifestanti che per nove mesi consecutivi, da gennaio fino a ottobre 23, hanno manifestato contro il governo di Netanyahu. Insomma, il richiamo di unità contiene in sé stessa la colpa di chi impedisce l’ unità. Nei primi mesi dopo l’ attacco di Hamas e l’inizio della guerra a Gaza gli israeliani hanno provato a sentirsi uniti, hanno collaborato in migliaia di iniziative di volontariato per dare risposte e sollievo alla terribile crisi della popolazione del sud e del nord, per i soldati e le forze dell’ ordine. Ma con il passare del tempo e il proseguimento della guerra, le spaccature ricompaiono e assumono sfumature diverse.
Uno dei temi più discussi tra la gente e nei media oggi è come e quanto fare “una vita normale”, mantenendo le abitudini e le tradizioni di sempre, o adottare un atteggiamento di non – routine, che ci aiuti a ricordare che c’è ancora in corso la guerra e che ci sono ancora 133 ostaggi e prigionieri a Gaza. Chi preferisce tornare alla vita normale si appoggia a teorie psicologiche che indicano la routine come fonte di resilienza collettiva e individuale: insomma, se vogliamo rimanere forti e vincere, dobbiamo continuare la nostra vita con il minimo dei cambiamenti – anche se abbiamo familiari e amici al fronte, anche se siamo tra le decine di migliaia di sfollati, anche se la vita degli ostaggi a Gaza è un inferno. Comportarsi come sempre vuol dire anche festeggiare a marzo Purim secondo la tradizione (feste in maschera e con molto alcool, sfilate allegre per le strade delle città) e ora celebrare Pesach, anche se la festa della libertà sembra una contraddizione in termini, vista la situazione. Chi ci tiene a mantenere la normalità, a volte, ha anche motivazioni religiose: come credenti non possono decidere di ignorare o cambiare i precetti religiosi su come celebrare le festività. Un’altra parte della popolazione, cui io mi sento di appartenere, sostiene che dobbiamo fare di tutto per non sentirci “normali”, per non abituarci alla situazione di guerra, per non permettere a chi sta al potere di trascurare il negoziato per la liberazione degli ostaggi, per non trovarci stupiti e impotenti fra qualche mese di fronte a iniziative ultra estremiste, come quelle di fondare nuovamente insediamenti ebraici nella striscia di Gaza. Allora, Purim quest’anno è stato festeggiato solo per i bambini che amano molto questa festa; e a Pesach molti hanno rinunciato a leggere l’ Haggadah o comunque hanno cambiato le abitudini familiari. In questo contesto le manifestazioni contro il governo e per la liberazione degli ostaggi sono tornate ad essere imponenti e ai margini di queste si possono sentire posizioni critiche sulla conduzione della guerra, sui suoi scopi poco chiari e i prezzi altissimi che sta pagando la popolazione palestinese. Si tratta di voci isolate e di gruppi molto esigui di numero, ma attivi.
C’è un altro gruppo importante e a mio parere incredibilmente silenzioso, composto dai 126 mila sfollati dal sud e dal nord. La caratteristica principale di questo insieme variegato di persone è che vengono tutti dalla periferia geografica e, in alcuni casi, anche sociale della società israeliana. Quelli che vengono dal sud hanno subito un trauma notevole il sette di ottobre, hanno perso familiari e amici e vissuto esperienze terribili. Quelli del nord (come me e la mia famiglia) da mesi si aggirano con la sensazione che quello che è successo a Beeri, Nir Oz e Sderot sarebbe potuto succedere anche qui. A prescindere da ciò, siamo tutti parte di un gruppo che non sa come organizzare il proprio futuro, che si chiede quando si potrà ritornare a casa, ai nostri impegni e lavori, alle nostre scuole. La sensazione di molti è di essere in balìa di decisioni poco chiare, di programmi inesistenti da parte del governo. Inoltre, dopo le prime settimane e mesi in cui la condizione degli sfollati era di interesse pubblico, il divario fra quelli che continuano la loro vita e quelli che si sono trovati a vivere in un albergo, o in un appartamento in affitto, in continuo movimento, lontani dalla propria comunità, è sempre maggiore. Un chiaro esempio ce lo dà la scuola. Gli studenti israeliani in generale hanno perso in questi mesi di guerra due o tre settimane di scuola per poi tornare alla normalità (o quasi). I ragazzi sfollati si sono trovati, a volte per mesi, senza scuola, o con delle soluzioni parziali di studio (poche ore di lezione al giorno, meno materie, insegnanti improvvisati e provvisori). Sono state create scuole per sfollati negli alberghi che li hanno accolti, ma non possono dare le risposte educative e di socializzazione che una scuola vera sa dare. In questa realtà molti ragazzi hanno la sensazione che non riusciranno più a colmare il divario con i propri coetanei non sfollati e che la loro condizione non interessi a nessuno. Gli sfollati dell’ultimo anno delle superiori che sono riusciti a frequentare le lezioni, probabilmente, passeranno gli esami di maturità grazie a delle agevolazioni che il ministero gli darà, ma la loro preparazione è nettamente inferiore a quella degli altri ragazzi israeliani. Sono gli stessi ragazzi che tre o quattro anni fa hanno perso giorni e giorni di scuola per via del covid, hanno studiato a distanza tra mille problemi, ma allora i lockdown erano nazionali e le carenze scolastiche distribuite in modo paritario. In questi mesi il problema della dispersione scolastica tra gli sfollati è molto acuto, il ministero dell’educazione cerca di individuare gli studenti perduti senza molto successo, perché le famiglie si muovono in continuazione e non hanno un indirizzo fisso.
Malgrado lo scontento, la voce degli sfollati non si sente quasi. Forse per via della precarietà e delle difficoltà di gestire la tanto desiderata “vita normale”, ma l’auspicata unità della società israeliana oggi non li comprende.
28/04/2024