di Giorgio Berruto
Le immagini, viatico verso la vita. “Per poter vivere, assai più che di mete precise abbiamo bisogno di una visione”, scrive Elias Canetti nella Tortura delle mosche. Cioè abbiamo bisogno di immagini. Con una fitta pioggia di romanzi, racconti, serie tv, graphic novel e esplorazioni in ogni campo delle arti visive, oggi la Shoah rappresenta un repertorio tematico tra i più utilizzati. Con esiti inevitabilmente diversi che vanno da pietre miliari della letteratura e dell’arte ai più insignificanti melodrammi o spy stories.
La dimensione visiva della Shoah esplorata da Arturo Mazzarella comincia con i testimoni per i quali le immagini rappresentano talvolta l’unico argine alla morte sempre imminente nel Lager. Basti pensare alle montagne – “le mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino” – evocate da Primo Levi nella conclusione del “Canto di Ulisse” di Se questo è un uomo. Per le vittime le immagini costituiscono spesso la sola forma di resistenza disponibile bucando l’universo nazista che al contrario annichilisce la visione, azzera il volto e lo sguardo. In questo senso quella hitleriana è una forma di iconoclastia, cioè di distruzione dell’alterità a partire dalla distruzione dell’immagine dell’altro che non è più altro bensì materiale umano, stracci, nulla. Obiettivo degli assassini è che l’altro, cioè l’ebreo, non solo non sia più dopo essere stato ucciso e ridotto in cenere ma non sia mai stato. Da qui il tentativo di distruggere le prove dello sterminio, di cui la negazione – contemporanea alla Shoah e successiva, fino a oggi – è una parte intrinseca. Dall’altro lato, come per un rovesciamento paradossale della tradizione ebraica, abbiamo l’iconofilia dei deportati. Che si esprime per esempio nelle immagini notturne riferite da Primo Levi: il sogno collettivo di mangiare ma anche quello, altrettanto comune, di ritrovarsi a casa circondati dai famigliari, raccontare e accorgersi con angoscia dell’indifferenza dei presenti. Sono dunque i sopravvissuti i primi a dire che Auschwitz non può essere irrappresentabile, diversamente da come voleva Adorno. Per Jean Améry è un’immagine a rendere per sempre ebreo, un’immagine a sei cifre tatuata sul braccio sinistro. “Si legge più in fretta del Pentateuco o del Talmud, eppure è più esaustivo” (Sopravvissuto ad Auschwitz).
Se lasciamo i testimoni e ci rivolgiamo agli eredi la centralità delle immagini permane. Nella maggioranza dei casi gli sguardi dei figli si fanno opachi, sfocati, costretti a vagare lungo traiettorie oblique. Eppure, sempre di sguardi si tratta. Dalla poesia di Paul Celan, che della Shoah sa molto – troppo – ma non ha visto quasi nulla, emerge l’impossibilità di una visione frontale, diretta. L’immagine per Celan è nient’altro che un velo e ciononostante, o forse proprio per questo, è sempre presente. Un esito differente è quello toccato da un autore che porta all’estremo le più disparate risorse offerte da quell’arte combinatoria che è il linguaggio come Georges Perec. Il padre morto in guerra, la madre deportata e mai tornata quando era ancora molto piccolo, racconta Perec in W o il ricordo d’infanzia. La conclusione inevitabile – “non ho ricordi d’infanzia” – è in realtà un punto di partenza. Gli occhi dello scrittore francese non hanno visto niente, sono stati derubati di ogni cosa: “Il mio paese natale, la culla della mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia infanzia gremita di ricordi intatti…”. Poiché Perec non può ricorrere alla memoria, visto che non si ha memoria di un’esperienza mai vissuta, si rivolge all’immaginazione che permette di “lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”. La sua memoria è memoria di finzione, ma ciò che racconta non è meno vero.
I testimoni e poi anche gli eredi e gli eredi degli eredi prima o poi scompaiono. Rimangono tante immagini del passato e un compito per il presente, quello di montarle innestandole sulle proprie domande, le questioni urgenti che segnano l’oggi. Come per Austerlitz, il protagonista dell’omonimo romanzo di W.G. Sebald che non conosce il proprio passato, l’incontro con la Shoah può avvenire in modo fortuito ma decisivo e dare l’avvio a una ricerca tra i segni della distruzione accatastati nelle teche del museo di Terezín. La raccolta della traccia lasciata da vite che sono state spezzate è obiettivo, tra gli altri, del recente volume in cui Daniela Sarfatti racconta con testo e immagini la storia dei Cesana e dei Polacco. Cercare le tracce, evocare i segni, dare vita ai nomi, costruire significati in continua trasformazione. Tutto rimane da fare quando il compito è per definizione interminabile.
Arturo Mazzarella, La Shoah oggi nel conflitto delle immagini, Bompiani, Milano 2022, 304 pp., 13€.
Daniela Sarfatti, Un’altra storia salvata. Vite spezzate e vite ritrovate nella bufera della Shoah, Belforte, Livorno 2022, 98 pp., 18€.